“Altro che abolizione delle Province, che non esiste, la verità è che ancora una volta ha vinto la grande burocrazia dello Stato”. Antonio Saitta, presidente della Provincia di Torino, nonché presidente dell’Unione Province Italiane (Upi), ha qualcosa da ridire sulla cosiddetta riforma delle province prevista dal ddl Del Rio su cui il governo ieri ha posto la fiducia; di fatto è il primo provvedimento concreto del governo di Matteo Renzi, reclamizzato con la solita buona dose di demagogia. Antonio Saitta sembra allargare le braccia, col tono di chi è costretto ad arrendersi al “furore abolizionista” che viene spacciato per risanamento anti casta.

Perché sarebbe una riforma piccola, banale e confusa?

Intanto, per fare chiarezza, cominciamo col dire che rimarranno tutte e 107 le province italiane. Il testo parla di riforma e non di abolizione. Verranno ridotte alcune funzioni con l’obiettivo di assegnarle alle regioni e il ddl non prevede tempi brevi per il passaggio di consegne, quindi l’idea è che si andrà avanti di proroga in proroga. E poi non mi pare che ultimamente le regioni si siano distinte per efficacia e trasparenza. Cambierà solo il sistema elettorale: il consiglio provinciale non sarà più eletto dal popolo ma dai consiglieri comunali di tutti i comuni di una stessa provincia.

A che scopo?

Apparentemente per ridurre i costi. Il presidente della Provincia dovrà essere un sindaco di una città e non percepirà alcuna indennità supplementare, e anche i consiglieri provinciali saranno scelti tra i consiglieri comunali delle città comprese in una provincia. Così facendo si risparmiano gli stipendi, circa 32 milioni di euro in tutta Italia.

Matteo Renzi dice che ci saranno 3 mila posti in meno nella politica, detta così è una battuta piuttosto efficace, perché lei invece sostiene che ci sarà addirittura un aumento della spesa pubblica?

Le province svolgono funzioni a dimensioni più ampie rispetto a quelle dei comuni. Non è solo una questione di risparmiare sugli stipendi. Faccio un esempio: per il riscaldamento degli edifici scolastici noi facciamo un appalto unico per tutte le scuole e riusciamo così a spuntare prezzi migliori. In futuro, invece, è molto probabile che si moltiplicheranno i centri si spesa con il conseguente aumento dei costi.

Sarebbero queste le ripercussioni sui cittadini di cui lei parla?

Si creerà una grandissima confusione tra chi dovrà assicurare i servizi essenziali ai cittadini, che sono già a rischio. Scuole e strade. Questo clima abolizionista, nel silenzio generale, nasconde il grande contenzioso dei trasferimenti statali. Noi già adesso non abbiamo più risorse per mantenere in sicurezza le scuole e le strade, e nella fase transitoria prevedo disastri. Gli studenti vengono a protestare sotto le finestre degli uffici provinciali.

Qual è la proposta alternativa dell’Upi che il governo non avrebbe preso in considerazione?

Per non fare le riforme vere, che avrebbero scontentato gli alti burocrati dello Stato, ci siamo accontentati di intervenire sull’1,2% della spesa pubblica – tanto “costano” le Province – invece di toccare il 60% di spesa dell’amministrazione centrale. Questo è il punto. Il grande tema, infatti, è la riorganizzazione degli uffici periferici dello Stato. Noi abbiamo proposto di dimezzare il numero delle province e di adeguare di conseguenza anche la macchina statale. Faccio un esempio: istituendo la grande provincia di Novara-Vercelli-Biella bisognerebbe accorpare la prefettura, la motorizzazione e tutti gli altri uffici dell’apparato statale. Questi sarebbero veri risparmi, invece il governo non ha avuto il coraggio di toccare la grande burocrazia dello Stato e ha architettato una riforma che è davvero una piccola cosa.

Lei sostiene addirittura che si tratta di una scelta opposta al modello di governo dei territori degli altri paesi europei. In che senso?

In Germania, per esempio, le province sono 400 e non esistono i prefetti nominati dal governo, non certo gli amministratori eletti dai cittadini. Questa riforma è una scelta politica che abbandona l’Italia dei piccoli comuni a vantaggio delle grandi città o aree metropolitane. Il nostro è un paese policentrico e credo che sia un errore di prospettiva storica.