Aloniab Nahom è nato il 16 dicembre nel Canale di Sicilia. Era a bordo della nave Etna della Marina militare. Sua mamma, eritrea, si trovava su un barcone insieme ad altre 430 persone, soccorse e trasferite sulla nave, per poi sbarcare alla volta di Augusta. Ogni giorno, dal 1 novembre scorso, l’opera di soccorso e salvataggio di vite umane da parte della nostra Marina continua senza sosta, nonostante la fine dell’operazione Mare nostrum e la riduzione di fondi e mezzi decisi dal governo. La frequenza delle missioni umanitarie ancora in corso, e che hanno permesso di salvare circa 4.000 persone a novembre considerando solo gli interventi Sar (Search and Rescue) condotti dalle navi militari, dimostrano come non si possa immaginare di rinunciarvi, se non a costo di assistere alla crescita incessante, giorno dopo giorno, del numero delle vittime nel mare Mediterraneo. In quelle stesse quattro settimane, altre 5.000 persone sono state intercettate e tratte in salvo dalla guardia costiera e dai mercantili commerciali coordinati all’interno dell’operazione Triton: i mezzi intervengono in seguito agli SOS lanciati dai barconi in alto mare, obbligo previsto dal diritto del mare, ma si limitano a caricare a bordo le persone soccorse e a portarle sulle coste italiane. Come spiegato dall’ammiraglio Giuseppe De Giorgi, capo di Stato maggiore della Marina nel corso dell’audizione presso la commissione Diritti umani del Senato lo scorso 9 dicembre, con questo tipo di interventi viene meno il sistema di screening sanitario e di prevenzione svolto da Mare nostrum, non essendoci personale medico sui mercantili. Inoltre l’assenza di forze di polizia a bordo fa sì che non vi siano controlli per individuare eventuali scafisti tra i migranti. Bisogna inoltre ricordare le difficoltà di coprire tutte le richieste di aiuto che arrivano dai barconi in mare con un dispositivo navale notevolmente ridotto rispetto a Mare nostrum.
I dati che l’ammiraglio De Giorgi ha esposto confermano in maniera evidente che Triton non può essere considerata nient’altro che un’operazione di sorveglianza e pattugliamento delle frontiere, con alcuni incidentali interventi di salvataggio, peraltro malvisti da Frontex, agenzia europea che ne è responsabile. Il direttore della divisione operativa di Frontex, Klaus Rosler, in una lettera al Viminale dell’8 dicembre, ha richiamato il centro operativo italiano dell’operazione perché le attivazioni impartite alle navi di portarsi «in zone poste fuori dall’area di operazioni di Triton» per prestare soccorso a imbarcazioni in difficoltà «non sono coerenti con il piano operativo», non sono ritenute «necessarie e convenienti sotto il profilo dei costi» e «purtroppo non saranno prese in considerazione in futuro». Il contenuto della lettera è sconcertante. Ancora una volta Frontex – e indirettamente l’intera Unione europea – afferma il concetto di «sorveglianza e controllo delle frontiere» come unico obiettivo della sua attività e ribadisce la sua estraneità alla tragedia delle morti in mare. Non rappresentano una questione da affrontare e risolvere i 23.000 migranti che dal 2000 al 2013 hanno perso la vita nel Mediterraneo o tentando di raggiungere l’Europa via terra. La stima aggiornata, pubblicata da l’Espresso la settimana scorsa, è quella che si legge nei «Migranti files» che raccolgono i dati sui naufragi censiti dall’osservatorio italiano Fortress Europe, dal monitoraggio realizzato da «United for intercultural action», una ong che coordina più di 500 organizzazioni europee che si occupano di rifugiati e migranti, e dal progetto «Puls» dell’università di Helsinki in collaborazione con il «Joint research center of the European commission», un archivio di notizie da cui sono state tratte quelle su migrazione e traffico di esseri umani.
Il 1 novembre scorso, il ministro della difesa Pinotti ha dichiarato l’avvio della «fase d’uscita» da Mare nostrum per la marina militare, ma è evidente la necessità di riconsiderare questa decisione alla luce degli interventi svolti in queste settimane, dell’altissimo numero di persone soccorse e salvate e dell’aumento costante e prevedibilmente inarrestabile del flusso dei migranti verso le nostre coste (+485% di arrivi nel novembre 2014 rispetto allo stesso mese del 2013). E soprattutto alla luce della conferma, nei fatti, della esclusiva natura di sorveglianza e pattugliamento delle frontiere di Triton. Occorre assicurare il mantenimento del dispositivo aeronavale della Marina nelle aree a sud di Lampedusa, attivo in questa fase di transizione iniziata il 1 novembre, per svolgere, almeno in parte rispetto a Mare nostrum, gli interventi che permettono la tempestiva messa in sicurezza dei migranti e il loro soccorso. È immorale parlare di risparmio dello Stato di fronte alla perdita di migliaia di vite umane. L’opera encomiabile della Marina militare deve continuare. Ne va della credibilità del nostro Paese che con Mare nostrum è riuscito a svolgere una funzione cruciale che andrebbe rivendicata e affermata con orgoglio in Europa e nel mondo.