La storia della nostra Repubblica nei casi di crisi di governo, è costellata di riunioni notturne, di trattative estenuanti, di tira e molla, di rotture improvvise, di accuse reciproche, di incontri fissati e annullati, di vertici incerti oppure risolutivi.

Perciò quello che è accaduto tra M5S e Pd nell’ultimo giorno fa parte del gioco politico, salvo poi trovare un accordo entro il tempo massimo stabilito dal presidente della Repubblica. Tra l’altro le accuse che si scambiano grillini e piddini, la volontà di scaricare l’uno sull’altro la responsabilità di un eventuale mancato accordo, fanno parte del bagaglio storico che le due forze politiche portano sulle spalle da anni.

Sicuramente tra di loro c’è chi preferisce rompere piuttosto che aggiustare, chi desidera prevalere sull’altro per avere tante «caselle» da occupare, più ministeri o quelli più appetibili, più potere decisionale da gestire nei prossimi 2 o 3 anni.

È palese una rivalità molto forte, un odio vero, un risentimento profondo, un’avversione violenta e cattiva. Tutti «sentimenti» che si annidano in una parte dei dirigenti, dei militanti e dei simpatizzanti del Movimento 5 Stelle e del Partito democratico.

Tuttavia è più interessante sapere quale risultato produrrà l’accordo che sembra profilarsi. Quali saranno le linee programmatiche? Come evolveranno i rapporti all’interno dell’Europa? Cambieranno e in che misura i decreti sicurezza?

Sul terreno sociale e del lavoro verrà marcata una netta discontinuità con le politiche renziane? Quali provvedimenti del precedente governo giallo-nero resteranno in piedi?

E non c’è dubbio che la figura chiave, se sarà lui l’incaricato, di una eventuale svolta sulle scelte fatte negli ultimi 14 mesi, è Giuseppe Conte. Che da «tecnico» è diventato un politico a tutto tondo, introducendo, in particolare nel mondo grillino, un atteggiamento diverso sull’Europa, conquistando «consenso internazionale» (da ultimo l’endorsement insidioso di Trump, l’amico di Salvini), costruendosi un profilo da leader sui generis. Confermato nell’arringa, in diretta tv e in Parlamento, contro un suo ministro (che forse adesso inizia a pentirsi per aver forzato la situazione portando a casa un risultato devastante per la Lega).

Se la strada verso il governo giallo-rosso sembra in discesa, va dato merito a chi ha ancora la testa sulle spalle, a chi ha capito che il fallimento di una trattativa difficile, contorta, piena di ostacoli, avrebbe conseguenze nefaste per l’Italia. L’abbiamo scritto e non lo ripetiamo perché è stucchevole dover ricordare che la strada della rottura potrebbe portare soltanto ad elezioni anticipate, con la vittoria certa della peggiore destra della storia repubblicana.

Gli appelli, gli interventi che ospitiamo su queste pagine ci confortano sulla necessità di essere armati di tutto l’ottimismo della volontà, che insieme al pessimismo dell’intelligenza può consentire una vera svolta in Italia. Del resto per 14 mesi abbiamo vissuto un assaggio dell’imbarbarimento politico, sociale, culturale, introdotto da una forza politica reazionaria, con l’avallo di un Movimento nato con intenzioni progressiste.

E se oggi possiamo sperare in un clima nuovo – nonostante i limiti oggettivi e i dubbi e le domande che l’area della sinistra si pone – possiamo anche pensare che il Paese non finirà nelle mani dei fascio-leghisti. Ancora ieri Salvini ha voluto marcare il suo ruolo di uomo forte, firmando – e facendo firmare ad altri due ministri ancora in carica, come fosse un qualsiasi «disbrigo di affari correnti» – il divieto di attracco ad un’altra nave di una Ong carica di migranti, la Lifeline, mentre arrivava la notizia di un altro tragico naufragio in Libia. Ecco: visto che Zingaretti ha usato più volte il termine «discontinuità», uno dei punti decisivi sui quali segnare una differenza con il passato, di entrambi i protagonisti in campo, è proprio la politica sull’immigrazione.