Si può riuscire a rappresentare compiutamente Roma in tutta la sua complessità? Oppure essa è unica, un enigma, una illusione dei sensi, non clonabile, umorale, incurabile, irrappresentabile, non emendabile, non riformabile in nessun modo (proprio come la natura umana)? Filippo La Porta si aggiunge con questo suo libro (Roma è una bugia, Laterza, pp.114, euro 12) a quegli autori che provano a cogliere l’anima di questa indescrivibile città. Lo fa in una maniera insolita, originale, non rinunciando al suo ampio bagaglio di critico letterario e ben consapevole che seppure in molti – e famosi – si sono cimentati in questa prova, solo pochissimi di loro sono riusciti a svelare alcune delle sue maschere. Così, poco a poco, l’autore ci convince attraverso citazioni, descrizioni e immagini che alla fine Roma è come una bugia, un caleidoscopio illusionistico che produce una infinità di strutture attraverso un gioco di frammenti di vetro e specchi e nel quale ognuno trova ciò che vuole (tranne la verità sembra affermare La Porta). «Tutto ciò che arriva qui – scrive nelle prime pagine – idee, fedi, ideologie, finisce, diventa rovine e archeologia, si devitalizza poco a poco… e però non smette di finire».
Nella prima parte del libro, la malìa di Roma ci vieneraccontata attraverso le citazioni di scrittori famosi come Manganelli, Levi, Flaviano, Pasolini, Fellini, Brancati e perfino del piemontese Pavese e del colombiano Garcia Marquez. Ognuno di loro ne svela una parte, illumina una delle sue facce e, al tempo stesso, ne nasconde altre come se questo racconto non dovesse e non potesse mai concludersi. Il carattere «contraddittorio» e trasformistico di Roma è il vero soggetto del libro. Impossibile fissarne un aspetto una volta per tutte. Roma è «Città di Dio», benché profondamente irreligiosa,e quanto al suo paesaggio anche i colori producono continue illusioni ottiche: «il rosa laggiù, oltre il gasometro, andava cambiandosi in un arancione carico prima di venire inghiottito dall’avanzare di un violetto tramezzato di bluastro». Perfino i suoi abitanti non sono immuni da questo ossimoro: concretamente barocchi, come in quella messinscena così teatralmente romanesca del «Teneteme se no l’ammazzo».
Nella seconda parte, La Porta ci racconta, a modo suo («la vita che abbiamo vissuto, così come il sogno che raccontiamo, non è quello che abbiamo sognato….. la verità si inventa») i luoghi della sua formazione e della sua educazione sentimentale; attraversa biografie e destini individuali; si rivolge ad amici e persone care: «non basta esserci stati, occorre che almeno uno ti ascolti e ti riconosca» (non a caso il libro dell’autore di poco precedente a questo aveva il significativo titolo di Poesia dell’esperienza). Si parte dal quartiere natale: Piramide e Aventino per attraversare poi Piazza del Popolo e le sue memorie di incontri letterari nei caffè Rosati e Canova, soprattutto Elsa Morante che qui visse e Sandro Penna. E già nel nome della Piazza si scorge una bugia, esso non è infatti riferito a un «popolo» sembra invece derivante dalla presenza di un pioppo («populus»), così come le sue scenografie barocche ingannano spesso i sensi, nascondendo le parti più taroccate. Trastevere è l’occasione per stigmatizzare il carattere (anch’esso un po’ inventato) dello storico abitante romano descritto, con le parole di Levi, come: «crudele senza cattiveria», «indifferente a gerarchie», «dispettoso senza odio». Al teatro Brancaccio di via Merulana il sessantottino La Porta «incontra» Jimi Hendrix scoprendo il carattere rivoluzionario della sua musica a ben soli due mesi di distanza dalla battaglia di Valle Giulia. In Campo de’ Fiori ricorda la morte annunciata di un suo carissimo amico avvenuta nel 2007. L’autore confessa di aver rivolto all’amico ancora in vita alcune parole di Kafka di cui, a quel tempo, non ne aveva compreso appieno il senso: «Nella lotta tra te e il mondo asseconda il mondo». Seguono tanti altri incontri di pezzi della memoria: i Parioli, il Liceo Nazareno, Monteverde Vecchio, San Basilio, Testaccio, Pietralata. Roma, conclude l’autore, è maestra nell’arte dell’addio, del congedo che si affina nelle pause, nei rinvii, nei suoi ritmi rallentati e indolenti. Ed è anche come una bugia perché simula una apocalisse sempre rinviata, perché offre un palcoscenico per qualsiasi parte, tranne che per essere se stessi.
Al termine di letture evocative e suggestive come questa, sollecitato anche dalla biografia dell’Autore, mi chiedo sempre (forse per via di un antico vizio di militante comunista) che rapporto ci sia tra il fare politica e lo scrivere bei libri come questo. Perché avverto che un legame c’è anche se indiretto, nascosto. Forse parlare della natura umana, descrivere la sofferenza delle persone, cercare ascolto in qualcuno che ti legga e comprenda le tue ragioni, è un gesto politico e, in momenti come questo, magari quasi l’unico che ti è consentito. O forse la mia è una domanda sbagliata, un antico vizio di un vecchio militante, appunto.