Spesso definizioni poco appropriate di un fenomeno hanno la meglio su definizioni più rigorose perché appagano la pigrizia con cui ci si difende dalla complessità della vita. A volte il danno è minimo, altre volte, invece, nascono fraintendimenti pericolosi. Questo è il caso della «violenza di genere», un modo di definire la violenza contro le donne che aggiunge allo schematismo delle formule ad effetto un sostegno involontario al meccanismo che produce l’aggressione.

Parlare di violenza di genere significa commettere due errori: concepire la donna e l’uomo in modo indipendente dalla loro complementarità e attribuire all’uomo una violenza nei confronti della donna connaturata al suo modo di essere (e risalente al suo patrimonio genetico). In entrambi i casi la vittima predestinata è la sessualità: si pretende di considerare la relazione sociale tra i due sessi a prescindere dal legame di desiderio (come se si pretendesse che gli edifici restassero in piedi indipendentemente dalla forza di gravità). La violenza nei confronti della donna è sociale e danneggia egualmente uomini e donne come soggetti sessuali.

Nella sostanza danneggia più l’uomo che la donna perché l’uomo violento perde il suo oggetto del desiderio e subisce una deprivazione psichica devastante. Una donna può essere sopraffatta dalla violenza ma restare internamente viva mentre l’uomo sopraffattore è già morto dentro.

In realtà l’oggetto dell’aggressione non è la donna in sé, intesa come «genere», ma la qualità femminile del desiderio, la possibilità stessa del coinvolgimento profondo e del godimento vero in entrambi i sessi. Il coinvolgimento fa paura perché comporta l’esposizione al desiderio dell’altro ma anche perché è intimamente connesso – sul versante maschile del desiderio – con la passione di appropriazione che rischia se non è adeguatamente modulata di distruggere ciò che ha tra le mani. L’intero edificio sociale si basa sulla complementarità dei sessi che incastra tra di loro (nella relazione degli amanti e nel mondo interno di ciascuno di loro) il concedersi all’altro (e alla vita) e la brama di possesso. L’equilibrio è vulnerabile perché è esposto a incomprensioni e fraintendimenti e perché il sottile lavoro di contrattazione costante subisce le difficoltà di mediazione tra la necessità di regolamentazione dell’elemento maschile della sessualità, che implica il ricorso a convenzioni e norme, e l’anticonformismo costitutivo dell’elemento femminile.

Ignorare la complementarità dei sessi (che sottende parimenti l’erotismo eterosessuale e quello omosessuale) ricorrendo alla definizione separata di «generi» (ritorno alla compulsione tassonomica) significa creare due entità astratte e artificiali per cercare poi disperatamente di accordarle tra di loro senza venirne mai a capo. Teorizzare poi, di fatto, una violenza innata dell’uomo nei confronti della donna, porta acqua al mulino di un processo di indifferenziazione sessuale che distrugge la relazione erotica, assegnando, quando l’impasse diventa massima, all’uomo il ruolo del carnefice e alla donna quello della vittima.