Il Rapporto Istat 2016, che si colloca all’interno delle celebrazioni del novantesimo anno di vita di questo Istituto, costituisce una novità positiva soprattutto perché sviluppa una lettura per generazione sia delle trasformazioni demografiche e sociali che delle dinamiche del mercato del lavoro. Naturalmente, come sempre, esso comprende una dettagliata analisi dell’evoluzione dell’economia italiana, del sistema delle imprese, della competitività e del lavoro e della protezione sociale. Contiene, quindi, una mole di dati e di analisi rilevante che dovrebbe essere analizzata con attenzione facendo, se possibile, uno sforzo di lettura strutturale.

Siamo abituati quasi ogni giorno a commentare dati Istat molto attuali che si prestano a valutazioni sull’efficacia delle politiche fatte da un governo che ce la mette tutta per scegliere dal mazzo i dati più convenienti riproducendo il teatrino di gufi e civette.

Banalizzare o piegare al clima del momento sarebbe un vero peccato perché i dati forniti vanno ben oltre le polemiche elettorali quotidiane ed evidenziano, invece, problemi strutturali profondi sui quali si potrà studiare, ragionare, confrontarsi, cercare soluzioni. Qui ci limitiamo ad alcuni fenomeni di medio lungo periodo evidenziati dal Rapporto.

Cominciamo dalle famiglie che vivono senza redditi da lavoro: sono oggi 2,2 milioni, comprendono quindi sei milioni di persone, dal 2004 al 2015 sono passate dal 9.4% al 14.2%, raggiungono al sud il 24,5%. L’incremento più forte di questo fenomeno si è registrato nelle famiglie di giovani dove la percentuale è sostanzialmente raddoppiata.

Questi pochi dati mi pare già dicano tanto su un fenomeno, non attribuibile certo solo al governo attuale, che dovrebbe diventare centrale nelle scelte politiche. Se non si creano occasioni di lavoro e quindi di reddito e ci si rifiuta anche di introdurre forme di reddito di cittadinanza, qualcuno dovrebbe spiegarci come si può combattere la povertà e la sfiducia nel futuro. Quando parliamo, quindi, di un buon utilizzo di questi dati pensiamo alla necessità ed urgenza di dare priorità assoluta alle occasioni di lavoro e reddito da creare e di concentrare su questo le poche risorse che ci sono e ci saranno. E su questo elemento dell’occupazione aggiuntiva il Rapporto evidenzia che, incentivi o meno, siamo lontani dalle esigenze e che cresciamo meno di quanto non avvenga mediamente in Europa.

Un secondo aspetto rilevante che emerge dalla relazione è il rapporto tra lavoro e studio. Le generazioni più anziane avevano investito nell’istruzione ed i livelli di scolarizzazione erano diventati strumenti importanti di mobilità sociale. La crisi economica ha indebolito il rapporto tra titolo di studio ed occupazione e quindi depotenziato questo straordinario strumento di emancipazione sociale.

Oggi un giovane su tre risulta sovra istruito rispetto al lavoro e dopo tre anni solo il 53% dei laureati ha trovato una occupazione ottimale rispetto al titolo conseguito. E non è incoraggiante il dato che emerge che le professioni più frequenti sono quelle di commesso, cameriere, barista, cuoco, parrucchiere, estetista. Non perché esse non siano attività necessarie ed utili, ma perché, in parallelo, non nascono posti di lavoro sufficientemente qualificati per la totale assenza di una politica di incentivazione degli investimenti destinati all’innovazione di processo e di prodotto.

Un terzo elemento che vogliamo rilevare in questa rapida carrellata riguarda la bella panoramica delle diverse generazioni che il Rapporto contiene a partire dalla generazione della ricostruzione protagonista del Dopoguerra, alle generazioni del baby boom caratterizzate dalla generazione dell’impegno e delle lotte degli anni settanta, alle generazioni dell’identità, per arrivare alla generazione della transizione, di passaggio tra vecchio e nuovo millennio, che sta subendo i contraccolpi della recessione.

Emergono in questa disamina fattori sui quali riflettere. Fra i nati negli anni quaranta l’80% aveva vissuto un “evento di vita” come il vivere da soli, la formazione di una famiglia o la nascita di figli; tra i nati negli anni settanta quella percentuale è scesa al 60%. Così nel 2015 il 70% dei giovani tra 25-29 anni ed il 54% delle coetanee vivono ancora in famiglia. Se si dovesse scavare di più e meglio su questi dati emergerebbe non solo una classificazione generazionale, ma una classificazione territoriale e, quindi, sociale.

E’ chiaro che in una società con scarse occasioni di lavoro e di studio, nelle professioni meno qualificate di cui si parlava si trovano gli strati più popolari e che per esse con la crisi piove su bagnato nel senso che le occasioni di mobilità sociale verticale si riducono, cresce il carattere ereditario dell’istruzione e dell’accesso alle professioni più qualificate e privilegiate, la stratificazione sociale e le disuguaglianze, insomma, si perpetuano.

Fermo restando il nostro giudizio positivo sulle novità di questo Rapporto, auspichiamo che nelle prossime edizioni potranno trovare più spazio queste analisi su stratificazioni sociali, disuguaglianze, mobilità.