di GUIDO MARIANI
Esiste una fitta pubblicistica dedicata ai giocatori di calcio che debuttarono come grandi promesse e alla fine finirono la loro carriera scaldando panchine o sbarcando il lunario in campionati minori lontani dalla luce dei riflettori. È un po’ meno raccontata la storia delle altrettanto numerose grandi promesse mai realizzate, nell’universo della musica rock. In questo caso calciatori e artisti musicali condividono però una parabola simile. Vengono scoperti e etichettati come «next big thing», approdano a una grande squadra (casa discografica), i giornalisti (critici) giurano di aver visto in loro il futuro e li paragonano a un grande del passato. Segue un periodo solitamente breve di enormi speranze, eccessivi entusiasmi ed effimero successo. Poi tutto crolla: il pubblico si stufa, i giornalisti-critici cambiano idea, le squadre-case discografiche si defilano e la magia svanisce. La storia di queste promesse deluse però è molto di più di uno stereotipo e ci ricorda che ogni successo è costruito su innumerevoli sogni infranti e che c’è anche chi ha trovato dignità giocando in serie B.

Steve Tilston, la lettera
che non arrivò mai
La storia dello sconosciuto musicista folk inglese Steve Tilston è così strana da aver ispirato (con molte variazioni) anche il film Danny Collins interpretato da Al Pacino e uscito quest’anno. Nato nel 1950, Tilston debuttò nel 1971 con l’album An Acoustic Confusion. Il disco non ebbe alcun nessun seguito e Steve scomparve per qualche anno dalle scene. Fu proprietario di un folk club, musicista nel gruppo di John Renbourn per poi tornare a incidere album e guadagnarsi una ridotta fama nei circuiti folk. Una carriera di dignitoso anonimato venne però sconvolta nel 2005 quando riemerse tra i cimeli beatlesiani di qualche collezionista una lettera firmata John Lennon e datata 1971 e rivolta proprio all’allora giovane Tilston. Lennon aveva letto una sua intervista su una rivista chiamata Zig Zag e si era sentito in dovere di incoraggiare la sua carriera spronandolo a non aver paura dell’industria musicale. La lettera si chiudeva con il suo numero di telefono. La missiva non fu mai recapitata. «Rimani fedele a te stesso. Rimani fedele alla tua musica» scriveva l’ex-Beatle. Quella lettera avrebbe cambiato la vita di Tilson e sicuramente avrebbe lanciato la sua carriera garantendogli il più autorevole dei sostegni. Lennon però spedì la lettera alla rivista sperando che la facessero avere al giovane cantante o la pubblicassero. Probabilmente qualcuno la vide e piuttosto che inviarla a destinazione o stamparla la vendette a qualche collezionista.

Neil McCormik, nemico fraterno di Bono
Con una buona dose di autoironia oggi Neil McCormik, che di lavoro fa il giornalista, si descrive come un perdente. Come milioni di ragazzini ai tempi del liceo aveva il sogno di diventare una rockstar. Fin qui nulla di speciale. Neil frequentò negli anni Settanta il liceo Mount Temple di Dublino e i suoi rivali dell’epoca che sperava di surclassare sul percorso verso il successo facevano parte di una band chiamata The Hype. Il suo piano era perfetto. Convinse il fratello Ivan, che aveva suonato nei The Hype la chitarra, a fondare una nuova band chiamata Frankie Corpse & The Undertakers di ispirazione punk. I fratelli McCormick si facevano intanto le ossa risuonando canzone per canzone il repertorio dei Ramones, mentre i The Hype reclutavano un nuovo chitarrista con un annuncio sulla bacheca della scuola. Le due band comparvero sul palco insieme in due feste scolastiche del Mount Temple. La seconda volta, nel giugno 1978, gli Hype, con la nuova line-up, si presentarono con il loro nuovo nome, U2. Fu l’ultimo concerto dei Frankie Corpse & The Undertakers. Neil McCormik ci provò ancora con altre band mentre i suoi compagini di scuola conquistavano il mondo. Alla fine si arrese, divenne biografo degli U2 e amico fraterno di Bono & C. e ha raccontato la sua vita all’ombra dei grandi nel libro Killing Bono, diventato poi anche un film. Anche il fratello Ivan è sceso a patti con il destino: «Non mi sarei mai adattato nella band. Se fossi rimasto io non sarebbero mai diventati gli U2».

Tommy Cromwell,
il ragazzo d’oro
Nel 1987 l’edizione americana di Rolling Stone presentò al pubblico i giovani artisti più forti d’America ancora senza un contratto con una major. Una band californiana di rock underground che si chiamava Jane’s Addiction e un rocker di Philadelphia chiamato Tommy Cromwell. I primi inizieranno la rivoluzione dell’alternative rock, del secondo si sono perse le tracce. Cosa accadde è difficile spiegarlo. Cromwell riuscì a vendere 50mila copie da ragazzino con un disco rock autoprodotto. Chitarrista di talento, animale da palcoscenico e potenziale idolo per le ragazzine, approdò, anche in seguito all’ottima stampa, sotto la Columbia Records, l’etichetta di Springsteen che pur di averlo sotto contratto firmò un assegno in bianco di 600mila dollari. «Sarà famoso – scrisse un giornale -. La sua bellezza lo ha già reso un idolo delle teen-ager». Ovviamente si sprecarono i paragoni con il giovane Boss. Il suo debutto con la Columbia arrivò nel 1988 con l’album Rumble e il singolo I’m not your man. I primi tour promozionali furono un successo e dal vivo il ragazzo era davvero sensazionale. Il singolo funzionò, l’album un po’ meno. Il mercato dei giovani stava cambiando, il suo rock troppo classico e contaminato dal blues sembrava roba da soffitta. La Columbia decise di dargli un’altra chance. Le aspettative vennero ridimensionate. Il «nuovo Springsteen» venne ridefinito da qualche critico «il nuovo George Thorogood» e l’album Guitar Trouble del 1990 non entrò neppure in classifica. Tommy si trovò senza contratto e proseguì la sua carriera da divo locale. Se andate a Philadelphia potete vederlo ancora suonare in qualche club.

Kingdome Come,
i nuovi Led Zeppelin
Verso la fine degli anni Ottanta sembrava che il mercato discografico americano non ne avesse mai abbastanza di band hard rock. Era la stagione di quello che venne poi definito «hair metal», gruppi di ragazzetti dai capelli lunghi e laccati che piacevano alle ragazze per il loro look e ai ragazzi per i riff di chitarra. Le etichette lanciavano band a ripetizione. Lenny Wolf (all’anagrafe Frank Wollschlager), un cantante arrivato a vent’anni in California dalla Germania, si trovò sotto contratto con la Polydor con una band esordiente di cui era leader assoluto, i Kingdome Come. Il debutto discografico omonimo arrivò nel 1988. La band era un clone dei Led Zeppelin e Wolf sembrava un Robert Plant con un’ottava di meno e dal vago accento teutonico. Le radio impazzivano per Bon Jovi e Mötley Crüe, e i Kingdome Come con il loro stile rétro sembrarono una ventata d’aria fresca. Sull’onda del momento il gruppo visse attimi di vera gloria, il disco arrivò al 12° posto in classifica e le riviste specializzate li salutarono come legittimi eredi degli autori di Stairway to Heaven. Il giocò durò poco. I riflettori si spensero presto. Il secondo album della band passò quasi inosservato. I Kingdome Come divennero una one man band di Wolfe e nel corso degli anni hanno dato alle stampe altri 12 album, raccogliendo apparizioni marginali nei festival hard rock. «I paragoni con i Led Zeppelin – ha detto in una recente intervista il cantante con una certa malinconia – furono una benedizione all’inizio. Ma furono la nostra rovina. Purtroppo hanno finito per bloccare il nostro potenziale. Ma è passato tanto tempo. E non ho rimpianti».

Gene, i perdenti del brit pop

Il frenetico mercato inglese è noto per entusiasmarsi per gruppi che vengono portati in trionfo e poi abbandonati poche settimane dopo. Le nuove promesse del rock sul suolo britannico fioriscono e appassiscono ogni settimana. Ma tra i casi più celebri di band che hanno perso l’appuntamento con la storia ci sono senz’altro i Gene. Il quartetto di Watford si formò nel 1993 e seguì la trafila dei campioni: i loro primi singoli li fecero conoscere, vennero scelti come miglior nuova promessa dell’anno sia da Nme che da Melody Maker e arrivarono all’album di esordio. Nel marzo del 1995 usciva Olympian che ottenne un buon successo commerciale anche se tra i critici in molti iniziarono a rilevare le troppe somiglianze con gli Smiths. Il leader della band, Martin Rossiter, dal canto suo si faceva notare per interviste in cui descriveva la sua musica come una sfida alla mediocrità e dichiarava che i Gene erano più importanti degli U2. Ma era un periodo di grande fermento per la musica britannica. Quando Olympian arrivava nei negozi usciva anche il primo singolo degli Oasis. E sulle scene erano già arrivati Blur, Radiohead e Pulp. La musica dei Gene più che cavalcare la rivoluzione sembra guardare al passato. Il loro secondo album uscì senza tante attese nel 1997 e fu oscurato da Ok Computer dei Radiohead. Per loro ci furono altri due album minori, di cui uno autoprodotto, e l’avventura si concluse nel 2004 con il definitivo scioglimento. Martin Rossiter oggi è un artista solista e non pensa più di essere più grande di Bono: «Siamo stati amati dai critici forse per due settimane – ha dichiarato . Debuttammo in un momento epocale e ci siamo trovati sulla barca sbagliata». Ricordando i loro fuggitivi fasti, Nme li ha descritti come quelle squadre forti che giocano bene negli anni sbagliati in cui ci sono squadre ancora più forti: «Non potevano competere con Blur e Oasis. In un’altra stagione avrebbero potuto vincere il campionato, ma le circostanze li condannarono ad essere dei comprimari».

Marah, i salvatori del rock Usa
Ottime canzoni, concerti live infuocati, amici famosi e disposti a tutto per loro. È un mistero come mai i Marah siano rimasti oggetti di culto per pochi appassionati. La band, originaria di Philadelphia e guidata dai fratelli Bielanko, David e Serge, diventò una gloria locale grazie a un disco autoprodotto e a Kids in Philly, album che uscì nel 2000 sotto l’egida di Steve Earle. Dopo le sbornie del grunge e del nu-metal, il mondo musicale a stelle e strisce sembrava pronto a un revival del rock americano più tradizionale e cantautorale. I Marah erano in pole position per un grande lancio. Volarono in Gran Bretagna e incisero il disco della supposta consacrazione con Owen Morris, già produttore degli Oasis. Con loro in studio arrivò anche Bruce Springsteen che accettò di suonare la chitarra per loro. Il disco Float Away with the Friday Night Gods usciva nel 2002 promosso dal singolo Float Away con l’imprimatur del Boss. Ma il disco non piacque e non sfondò. C’è chi lo vedeva come troppo pop, c’è chi, data la presenza di Bruce, chiamava in causa paragoni scomodi. Il successo non arrivò. Springsteen li invitò a suonare con lui negli stadi, ma da soli i Marah riempivano a stento i rock club. Due anni dopo lo scrittore Nick Hornby autore di Alta fedeltà dichiarò il suo amore sperticato per la band in un articolo sul New York Times: «Probabilmente sono diretti all’oblio commerciale. E non sono famosi. Ma quello che amo di loro è che in loro sento tutto quello che ho sempre amato nella musica rock. Nei loro dischi e nei loro live show». Hornby finirà per esibirsi in alcune occasioni con il gruppo, ma la sua mesta previsione si rivelerà purtroppo giusta. I Marah non sfonderanno mai. Nel 2008 Serge Bielanko, lascia la band. L’ultimo album dei Marah, ormai guidati dal solo David, è uscito quasi clandestinamente nel 2014.

The Vines,
dall’Australia con furore
«Il rock è tornato» titolava trionfale nel settembre del 2002 Rolling Stone. In copertina c’era il quartetto australiano The Vines. Per loro non era la prima cover, ma sarà una delle ultime. Il gruppo venne glorificato come protagonista dell’ennesimo revival del garage rock. Qualcuno li definì i nuovi Nirvana. Il magazine inglese Nme sentenziò immediatamente che il loro debutto Higly Evolved era uno dei dischi dell’anno. Il leader Craig Nicholls si attirava paragoni con Kurt Cobain per la condotta imprevedibile e ribelle: durante un’esibizione al David Letterman distrusse gli strumenti e altre trasmissioni televisive decisero di annullare la sua performance. Ma Nicholls non aveva né il carisma né il talento di Cobain e le sue follie sul palco, giustificate con una diagnosi di sindrome di Asperger, resero la band insopportabile a molti. La sensazione di Higly Evolved scemò in fretta, il loro secondo album ebbe un mediocre successo solo nella natia Australia. Il loro terzo album convinse la loro etichetta, la Capitol, a licenziarli. Qualche anno dopo Nme recensì un nuovo loro disco e fece mea culpa: «Ci siamo sbagliati». Nel 2014 la band di cui Nicholls è l’unico membro rimasto dagli esordi ha pubblicato un album che è arrivato al 29esimo posto nella classifica australiana.

Ruth Gerson,
lla star che non fu
Qualche anno fa il New York Times dedicò un lungo articolo al curioso caso di Ruth Gerson aprendo con un titolo che spiegava già tutto «Non è nata una stella». Il giornale meditava sul perché una giovane artista di talento come lei si esibisse ancora in piccoli club dell’East Village dimostrando ogni volta che cantava di essere fuori posto per il giro dei piccoli club. La storia di Ruth, cantautrice folk che sembrava un incrocio tra Joan Baez e Sheryl Crow, cominciò negli anni Novanta, quando fresca di studi a Princeton attirò l’attenzione di critici e case discografiche. Nel 1994 salì sul palco dello storico Newport Festival, i critici parlarono di un’esibizione stupefacente. «Sta suscitando un passaparola che i giovani artisti di solito possono solo sognare» scrisse lo stesso anno il New York Times. «Una voce potente, perfetta» riportò il Village Voice. Elle la definì «Una nuova poetessa rock». Ruth finì per aprire i concerti di superstar come Hootie and The Blowfish e Dave Matthews Band. Bob Dylan divenne suo fan e volle conoscerla. La Gerson arrivò anche in Italia dove riuscì a conquistarsi un seguito di culto. Tutto era pronto per il grande passo. Ma al momento di firmare per una major e concretizzare tante aspettative, Ruth decise di tirarsi indietro. «Avevo paura della fama e del successo. Temevo di essere travolta e perdere il controllo». La cantante voltò così le spalle a una carriera da star, pubblicando diversi album autoprodotti, esibendosi sempre in piccoli locali e raccogliendo un pubblico internazionale e devoto, ma selezionato. Negli ultimi anni ha alternato la carriera da performer a quella di istruttrice di canto. «Non sento di aver fallito – ha detto in un’intervista -. Non ho abbandonato la musica. Ci sono momenti in cui rimpiango di non suonare nei grandi teatri? Sicuramente. Ma io non ho l’ego che mi dice ‘Mi merito questo. Sono grande’. Ho fatto le mie scelte e sono più felice di quanto sia mai stata».

Teitur, il cantautore
che venne dal freddo
Riuscire a ottenere il successo internazionale venendo dalle Isole Fær Øer sarebbe stata un’impresa epocale. Ma il timido cantautore Teitur quasi ci riuscì. Era il 2003 e il suo disco di debutto Poetry and Aeroplanes uscì per la Universal raccogliendo unanimi consensi. Un piccolo capolavoro, per un artista ignoto da un posto remoto. L’autorevole critico Nick Kent lo dichiarò uno dei pochi dischi usciti durante l’anno che valeva la pena di ascoltare. Il blues-rocker americano John Mayer lo volle in tour con lui e lo promuoveva in ogni intervista. «Uno dei migliori dischi degli ultimi anni» disse. Forse aveva ragione, ma Poetry and Aeroplanes non andrà mai oltre un disco d’oro in Danimarca (nazione sotto cui ricadono le isole Fær Øer) e Teitur fu liquidato dalla Universal proseguendo la sua carriera oscura e venerata da pochi. La sua canzone Get Me nel 2010 è stata interpretata in un duetto da Mina e Seal.