Quando, nel maggio del 1933 si inaugurò l’Esposizione universale di Chicago, dedicata a «un secolo di progresso», duecento operai dello stabilimento della General Motors di Janesville ricevettero 7 dollari e una divisa pulita al giorno per assemblare delle berline Chevrolet Master Eagle a quattro porte sotto una passerella che poteva contenere mille spettatori. «Fra tutti i meravigliosi spettacoli offerti dal fervore dell’industria moderna», recitava una brochure realizzata dalla GM per l’esposizione, «nessuno è più affascinante per gli occhi della fabbricazione di un’autovettura». Poco importa che quell’anno, nel pieno della Grande Depressione che aveva fatto seguito alla crisi del 1929, la fabbrica di Janesville fosse momentaneamente chiusa e quegli operai fossero stati appena licenziati. Il destino della General Motors e quello degli abitanti della cittadina avrebbe continuato ad intrecciarsi. Come era accaduto prima e come continuerà ad accadere in seguito. Perlomeno fino al 2008. Perché da quando, alla fine della Prima guerra mondiale il futuro colosso dell’auto era sbarcato in questa zona del Wisconsin meridionale, dapprima per produrre trattori e poi via via sempre nuovi veicoli, dalle Chevrolet del 1923 fino agli imponenti Suv dei primi anni del nuovo millennio, tutto era cambiato. In impianti che erano arrivati a misurare oltre 450mila metri quadrati, l’equivalente dell’area di gioco di dieci campi da football, lavoravano decine di migliaia di persone e altrettante erano impegnate nelle aziende locali tutte più o meno coinvolte nell’indotto dell’industria automobilistica. Una pagina di storia americana sopravvissuta non senza difficoltà e costi sociali alle tante crisi conosciute da questo settore a partire dalla fine degli anni Settanta che si è chiusa definitivamente con l’annuncio, arrivato alla vigilia del Natale del 2008, da parte dei vertici della General Motors di voler trasferire altrove la linea produttiva di Janesville. Un’intera comunità cresciuta intorno alle fabbriche che, anche grazie al peso acquisito dal sindacato dell’auto, nello specifico lo United Auto Workers Local 95, aveva fatto il salto verso la middle class grazie a buoni salari, indennità di disoccupazione e assistenza sanitaria che si vedeva precipitare nel vuoto a causa di scelte aziendali dettate da calcoli azionari e strategie di delocalizzazione nell’anno della crisi dei mutui subprimes.

È questa la realtà che Amy Goldstein, da trent’anni tra le firme di punta del Washington Post, vincitrice del Pulitzer insieme al team del giornale che ha raccontato l’attentato dell’11 settembre, ha scelto di descrivere in Janesville. Una storia americana (Luiss, pp. 298, euro 24, traduzione di Chiara Veltri e postfazione di Ferdinando Fasce) nel quale ripercorre i sei anni che hanno fatto seguito alla chiusura dello stabilimento dal punto di vista degli abitanti della cittadina. Frutto di un’indagine durata anni e costruita intorno a centinaia di interviste, il libro di Goldstein segue l’evoluzione e le riflessioni di una serie di personaggi, a partire dai membri di tre famiglie operaie, i Vaughn, i Whiteaker e i Wopar, finendo per mettere in scena, con lo stile impeccabile del giornalismo d’inchiesta, una sorta di «romanzo della crisi», in grado di illuminare la condizione di una parte non trascurabile della società americana.

Per scrivere «Janesville» ha passato anni in questa cittadina del Wisconsin, analizzando con estrema empatia il modo in cui i lavoratori hanno affrontato la situazione. Come sono andate le cose?
Volevo individuare una comunità che avesse perso molti posti di lavoro durante la cosiddetta Grande Recessione, il modo in cui negli Stati Uniti abbiamo ribattezzato la crisi finanziaria globale. Un microcosmo attraverso il quale raccontare tutti i luoghi che in quel periodo hanno sofferto sul piano economico e sociale. Prima non conoscevo Janesville, ma avevo sentito che lì nel 2008 era stato chiuso uno dei più vecchi impianti della General Motors. Perciò il mio lavoro è consistito nel mettere insieme ciò che era accaduto prima del mio arrivo e gli eventi cui stavo assistendo. Raccontando tutto attraverso un caleidoscopio che aveva al centro le vicende di tre famiglie operaie e di altre figure che stavano cercando di aiutare la comunità.

Come è stato il rapporto con queste persone e cosa le è rimasto di tale esperienza?
Durante gli anni della ricerca non mi sono mai trasferita a tempo pieno a Janesville, anche se trascorrevo diversi mesi nelle vicinanze, a Madison. Ma anche quando era a Washington, dove vivo, incontravo e parlavo spesso con queste persone che si sono dimostrate davvero generose; con alcuni di loro sono in contatto ancora oggi. E devo confessare che negli ultimi mesi, visto che la pandemia sta causando anche così tanti danni economici, ho pensato a quanto rilevante sia stata la lezione che ho appreso a Janesville su cosa accade quando scompare il «lavoro buono».

Lei racconta una sorta di «funerale collettivo», quello di una comunità che assiste alla propria fine. L’addio della General Motors produce impoverimento, solitudine, disperazione, l’aumento dei suicidi. Eppure le virtù solidali della città riemergono, fuori dai luoghi di lavoro, nell’aiuto a chi sta peggio.
È vero, dopo che il cuore dell’economia locale si è fermato, a Janesville mi sono imbattuta sia nella disperazione che nella resilienza. Ho trovato però anche qualcos’altro: la negazione. A lungo le persone mi hanno detto che era solo questione di tempo prima che la General Motors riaprisse l’impianto. Ho capito allora fino a che punto per ognuno di noi è difficile immaginarsi un futuro diverso dal proprio passato. E il passato qui era la GM che cambiava via via i prodotti da realizzare, assicurando però sempre il lavoro. Ma stavolta non è andata così. E in questo nuovo contesto la comunità si è attivata, le organizzazioni non-profit hanno compiuto molti sforzi per colmare i vuoti in materia di assistenza sanitaria o di disponibilità di generi alimentari e di tutte le altre cose delle quali le persone si trovano ad avere bisogno quando «scivolano fuori» dalla classe media. Ciò non significa che i nuovi poveri si sentissero a proprio agio nel chiedere aiuto. Non lo erano, anche quando ne avevano più bisogno.

Molte delle vicende che racconta ci parlano della determinazione delle persone a «reinventare se stesse». Il primo impulso è però trovare un’occupazione che garantisca un reddito pari a quello percepito alla General Motors.
Per coloro che prima della crisi lavoravano alla GM, le cose sono andate un po’ meglio rispetto a chi è stato licenziato da società dell’indotto o dalle piccole imprese del luogo. Il contratto stipulato tra i sindacati e la GM prevedeva infatti una serie di benefit che però alla fine si sono esauriti. E così i lavoratori hanno cercato occupazioni che garantissero condizioni simili a quelle di partenza. Solo che di lavori così non ce n’erano più. Erano invece disponibili le risorse federali per tornare a scuola e riqualificarsi. Ed è quello che hanno fatto in molti. Ma non è stato facile perché spesso si trattava di persone tra i 30 e i 40 anni che non andavano a scuola da una vita. E non è tutto. In seguito è emerso che anche coloro che si erano formati trovavano difficilmente lavoro nel proprio campo. Così, anche gli operai che sono al centro del mio libro hanno scelto percorsi diversi. Il primo, che era stato un leader sindacale, ha preso la difficile decisione di seguire un corso di gestione delle risorse umane e ha trovato lavoro nel management di un’azienda. Il secondo si è trasferito presso un’altra fabbrica della GM, a centinaia di miglia da casa, facendo il pendolare ogni settimana pur di consentire alla propria famiglia di mantenere il livello di vita precedente. Il terzo, che non voleva allontanarsi da casa, ha trovato una serie di lavori con i quali però non guadagnava abbastanza. Sua moglie svolgeva due lavori a salario minimo e le sue due figlie gemelle hanno fatto fino a cinque lavori diversi durante il loro ultimo anno di liceo per aiutare la famiglia a pagare le bollette.

Le donne hanno svolto un ruolo molto importante nel modo in cui la comunità ha affrontato la crisi.
Non avevo deciso di scrivere una storia di «donne forti» che si misurano con la crisi, però è vero che molti dei personaggi del mio libro sono donne che cercano di aiutare la loro comunità. Come una banchiera e la ricca proprietaria di un’azienda che hanno dato vita a una coalizione per cercare di ricostruire l’economia locale. Allo stesso modo, un’insegnante di studi sociali ha creato quello che lei chiamava «l’armadio Parker», dal nome della Parker High School. Aveva notato che alcuni studenti si trovavano in difficoltà e ha iniziato a raccogliere vestiti usati, articoli da toeletta, materiale scolastico e molte altre cose che teneva in una stanza a disposizione dei giovani che avevano bisogno di aiuto.

Malgrado il 52% degli elettori di Janesville abbia votato per Clinton, nel 2016 il Wisconsin ha scelto Trump. Un successo arrivato proprio da luoghi che hanno vissuto gli effetti della crisi, come potrebbero andare le cose quest’anno?
Janesville è una vecchia città democratica e sindacale. Nel corso della mia ricerca ho visto approfondirsi lo scontro politico, in parte su quale fosse la migliore strategia di ricostruzione economica della città. Nel 2016 Trump ha goduto del sostegno di alcune aree dove le persone vivevano una forte frustrazione per la crisi, ma erano zone la cui tradizione democratica era meno forte che a Janesville, dove l’identità sindacale è sopravvissuta ai contratti di lavoro. Quanto alle elezioni di novembre, i sondaggi mostrano che il democratico Joe Biden è davanti a Trump negli Stati chiave, e molti americani affermano di disapprovare la gestione del presidente dell’emergenza coronavirus. Ma al giorno del voto manca ancora molto e possono succedere tante cose. E solo il tempo potrà dirci come voterà Janesville.