La veemenza con cui Salvini ha respinto quelli che ha definito i ricatti di alcuni stati europei, virtuosi o presunti tali, nei nostri confronti, legittima la domanda se alcune condizionalità a cui costoro vorrebbero sottoporre l’accesso dell’Italia a questo o quell’aiuto europeo non possano essere effettivamente virtuose. Cioè medicine necessarie alla buona e duratura salute del paziente, al di là della solidarietà collettiva che, a giusto titolo, rivendichiamo, colpiti più di altri dalla pandemia.
In realtà lo spauracchio, strumentalmente agitato da Salvini e che suscita giuste preoccupazioni all’interno della stessa maggioranza governativa, è quella della Grecia, in passato preda di una troika che colpiva non evasori ed elusori fiscali, ricchi, armatori e non, bensì i comodi bersagli delle buste paga di pensionati, operai ed impiegati in regola con il fisco. Con il risultato d’ingrassare esosi creditori stranieri, perlopiù tedeschi, ed obbligare il governo di Atene a svendere infrastrutture essenziali, porti, aeroporti.

Chiediamoci, invece, se governi assai più socialdemocratici del nostro, a Helsinki, Stoccolma, Copenhagen, tanto per essere precisi, davvero intendano ripetere questo scenario, o non abbiano, piuttosto, a mente arretratezze e disfunzioni che sarebbe interesse innanzitutto nostro affrontare, usando la pandemia per individuare e correggere storture altrimenti intoccabili.


Alcuni obiettivi sono stati già formulati
dal governo o da qualche singolo suo esponente (cfr. Giuseppe Provenzano, “Dobbiamo dare lavoro ai giovani tornati al Sud”, il manifesto, 20 giugno): il rafforzamento della ricerca e della sanità pubblica, la semplificazione normativa, la tempistica del sistema giudiziario, l’estensione e, in prospettiva, la gratuità della banda larga e il sostegno ad uno sviluppo ecocompatibile, con una particolare attenzione al ruolo propulsore del Mezzogiorno.

Ve n’è a sufficienza per spiegare il tiro a segno di cui è bersaglio il governo, soprattutto nella persona di chi lo guida, da parte di un blocco d’interessi guidati dal presidente della Confindustria e rintanati nelle sfere dell’alta burocrazia (specie del Tesoro) e delle corporazioni, tutte ingolosite dalla rinnovata prospettiva di socializzare le perdite, non soltanto causate dalla pandemia, con un occhio vigile a tutela di profitti antichi e rinnovati.

Tuttavia, è come se il governo, oggi più forte in Europa che non in Italia, esitasse non di fronte ad una generica “svolta”, bensì sulla sponda di un vero e proprio Rubicone che, se non venisse attraversato, non troverebbe consensi e forze sociali sufficienti a resistere ad un’ulteriore restaurazione neoliberista.

Mi riferisco ad una semplice verità, su cui si fonda l’attuazione effettiva degli obiettivi, con le misure di volta in volta ipotizzate: che non si esce dalla crisi economico-sociale che seguirà o continuerà ad accompagnare la pandemia con la sola carta stampata dalle banche centrali, pena il debito a livelli vertiginosi, senza toccare rilevanti interessi costituiti, spostare denaro dalle tasche degli abbienti a quelle di meno abbienti, tagliare rilevanti sprechi di denaro pubblico sopravvissuti alle c.d. spending review.

Secondo la relazione presentata da Oxfam allo scorso convegno di Davos (cfr. Il Sole-24ore, 20 gennaio 2020) nel secondo quadrimestre del 2019 il 20% più povero della popolazione italiana detiene l’1,3% della ricchezza; il 60% costituito da ceto medio, in rapido impoverimento, il 28,9%, mentre il 20% più ricco ne possiede il 69,8%. Questi dati, destinati ad accentuarsi per effetto della pandemia, corrispondono ad una crescita via via più accelerata, della diseguaglianza, dal 1980 ad oggi. Fenomeno mondiale, ma anche squisitamente italiano.

Illusorio pensare che se ne possa uscire
, cullandosi con teorie economiche ormai smentite dai fatti, secondo cui più guadagnano i ricchi meglio si nutrono i poveri e i ceti medi impoveriti delle briciole che cascano dai loro deschi. Nel breve periodo si possono anche rinviare imposte patrimoniali, ma prima o poi questo o altro governo dovrà mettere mano alla progressività della tassazione, ad imposte di successione per i più abbienti che nemmeno la sinistra più radicale oggi osa proporre, alla preservazione delle rendite di bilancio, all’evasione ed elusione fiscale (concordo con le osservazioni di principio svolte da Roberto Romano sul manifesto del 23 giugno).

Pena l’esplosione di una crisi che da sociale diventa politica, con l’estrema destra che capitalizza la sofferenza popolare e, storicamente pericolosa, la proletarizzazione crescente del ceto medio più vulnerabile.

Né è fattibile una riforma della pubblica amministrazione che non preveda eliminazione di sprechi e privilegi; anche, ove occorra, nuove assunzioni. Occorre anche trasformare la passione per le grandi opere, fonte di ricchi clientelismi, per non dir di peggio, in una passione uguale e contraria per le manutenzioni. Si tratta, insomma, di attraversare il Rubicone.

Ai fini della trattativa europea in corso, e che dovrebbe auspicabilmente concludersi entro il mese di luglio, converrebbe ai nostri governanti uscire dal tradizionale corteggiamento italiano degli interlocutori più forti – “Con la presidenza della Germania, la sintesi di Angela Merkel risolverà i nostri problemi”, suona la litania corrente – per rompere sia gli schieramenti nord-sud che europeisti-nazionalisti (o presunti tali) e piccoli-grandi stati.

Da questo punto di vista, è urgente un dialogo con i governi socialdemocratici del Nord Europa, per molti versi nostri affini. Con i giusti obiettivi che dovremmo comunque perseguire, al di fuori di ogni condizionalità europea, è possibile farlo, persino assumendo un ruolo di punta nella costruzione di un’Europa più equa e più unita.