Firma di Le Monde diplomatique, Maurice Lemoine è uno dei più grandi esperti europei di America latina, continente che ha raccontano e analizzato anche attraverso una corposa produzione letteraria e saggistica.

Una delle forme narrative che predilige è quella del noir, con la quale ha messo in pagina temi scomodi come il golpe contro Chavez in Venezuela o la storia dei cinque agenti cubani, liberati dopo 16 anni di carcere.

Il suo ultimo lavoro s’intitola Les Enfants cachés du général Pinochet. Précis de coups d’État modernes et autres tentatives de déstabilisation. Un libro inchiesta di 700 pagine (éditions Don Quichotte), in cui l’autore analizza i nuovi tentativi destabilizzanti a guida Usa in America latina.

Cos’è cambiato rispetto al secolo precedente – quello del Piano Condor e delle dittature sudamericane – esiste uno “schema” diverso?
Ho cominciato a lavorare al libro dopo il «golpe istituzionale» contro due presidenti eletti, Fernando Lugo in Paraguay e Manuel Zelaya in Honduras. L’idea era quella di spiegare a un pubblico più ampio che ha in mente colpi di stato come quello di Pinochet in Cile o della giunta militare in Argentina, come si organizzano oggi i moderni golpe, che perseguono lo stesso scopo ma con modalità meno shoccanti: in particolare le operazioni di destabilizzazione permanente che abbiamo visto, dalla fine degli anni 90, contro l’insieme dei governi latinoamericani di sinistra o di centrosinistra. Ho però scoperto con un certo stupore che in realtà non ci sono molte differenze. Se guardiamo ai due anni trascorsi in Venezuela, vediamo delle fortissime analogie con quanto è accaduto nel Cile di Allende nel 1972 e ’73: lo stesso tipo di destabilizzazione economica. Anche in Cile i media creavano allarme sulla penuria di prodotti come per la carta igienica in Venezuela. Non c’è stato lo sciopero dei camionisti, ma l’uso dei 2.300 km di frontiera con la Colombia per moltiplicare il contrabbando e accelerare la crisi economica con un’emorragia di prodotti e il mercato nero del dollaro e del bolivar.

E però il 6 dicembre non c’è stato un golpe, ma una vittoria elettorale delle destre dovuta anche agli errori del chavismo.
Naturalmente gli errori ci sono stati e dopo 15 anni si può anche perdere un’elezione, ma quella vittoria è arrivata al termine di un lungo lavoro di destabilizzazione che si è intensificato dopo l’arrivo al governo di Nicolas Maduro. E’ stata al contempo il prodotto di problemi reali che non sono stati risolti dal governo Maduro ma anche dello sfinimento di una popolazione provata dalla penuria e dal caos economico organizzato. Adesso sento i conservatori dire: è stata una vittoria della democrazia. No, è senz’altro stata una vittoria della maturità dei chavisti che hanno accettato i risultati senza provocare violenze come aveva fatto Capriles dopo aver perso con Maduro. E però quel processo di democratico ha avuto ben poco. Ma vorrei soprattutto evidenziare un punto. La grande differenza tra ieri e oggi riguarda noi, intendo noi europei. Negli anni ’70 del secolo scorso, in Europa c’erano correnti politiche definite, c’era una sinistra ed eravamo capaci di distinguere, di analizzare in base a criteri teorici e dire: la destra cilena è scesa in piazza. Oggi, invece, i giornali ti raccontano: la società civile è scesa in piazza e il grande pubblico recepisce un termine che non vuol dire niente come qualcosa di simpatico. Se guardiamo la composizione dell’alleanza Mud, in Venezuela, vediamo che racchiude componenti di estrema destra, di destra classica e di destra socialdemocratica. Un quadro analogo a quello europeo, perché fino a trent’anni fa la socialdemocrazia si situava a sinistra, oggi si situa a destra. Quindi c’è un’alleanza oggettiva , un’alleanza contro natura tra queste tre componenti che vediamo agire anche in Francia e che provoca un cortocircuito nella testa delle presone. Così, Manuel Valls chiede conti al Venezuela sui diritti umani e tre giorni dopo, dall’Arabia Saudita si felicita per le ottime relazioni tra la Francia e quel paese in cui quest’anno ci sono state 150 esecuzioni capitali, decapitazioni sulla pubblica piazza, in cui si reprimono le donne. Il Venezuela ha messo in luce un’alleanza della destra, dell’estrema destra e dei socialdemocratici europei. Ramos Allup o Antonio Ledesma, leader della Mud sono ex golpisti, eppure sono grandi amici di Felipe Gonzalez in Spagna, di Valls in Francia. Contro Maduro si sono alleati ex presidenti della destra e della destra socialdemocratica come Aznar e Felipe Gonzalez. La verità è che noi europei siamo in piena confusione.

E perché si è arrivati a questo punto?
Ci sono diverse ragioni, e il dibattito sul bilancio del socialismo novecentesco, sulla crisi delle rappresentanze politiche tradizionali e sulla corsa al centro delle destre socialdemocratiche interessa sia l’Europa che l’America latina. Ma vi è soprattutto un problema di interessi. Al di là dei vuoti discorsi sugli obiettivi del Millennio e sulla povertà, quando un governo arriva al potere e realizza politiche favorevoli ai settori popolari, com’è successo in Grecia, c’è una grande inquietudine: perché la ricchezza nazionale deve continuare a essere spartita tra le classi dominanti, le classi economiche e le classi medie e gli altri che si arrangino. Così, ora vediamo reazioni di giubilo sulla “fine del ciclo populista”. Io lo chiamo invece ciclo redistributivo, perché – pur con le loro differenze – Correa in Ecuador, Morales in Bolivia e soprattutto Chavez e Maduro in Venezuela hanno avuto come priorità le politiche redistributive a favore dei più poveri, e questo risulta indigeribile. Così, la manipolazione politica ideologica e mediatica gioca con la confusione e mette nello stesso concetto di populismo l’estrema destra e l’estrema sinistra: per esempio, in Francia, si accomuna nel concetto di populismo il Parti de Gauche di Jean-Luc Mélenchon e il Front National di Marie Le Pen. Si favorisce l’avanzata della destra xenofoba per non affrontare avversari di una sinistra vera. E’ sbagliato continuare a dire che esiste una destra, una sinistra e una estrema sinistra: perché in realtà esiste una destra, una seconda destra e poi una sinistra. Come giornalista sono disperato nel vedere lo stato in cui è ridotta la professione, non perché rifiuti il pluralismo ma perché non c’è più pluralismo, come ben si evince dal modo in cui vengono trattati questi temi. I grandi media sono un attore fondamentale nei processi di destabilizzazione. Non è un caso se la prima misura di Macri in Argentina è stata quella di prendersela con l’organismo regolatore dei media, con la rete che ritrasmette i dibattiti al Senato, con Telesur. Controllare i media è fondamentale. In Francia, il magnate israeliano Patrick Drahi, proprietario della rete d’informazione continua israeliana e francofona I24, sta concentrando nelle sue mani un impero mediatico. Dopo Liberation e l’Express, è andato all’assalto di uno dei più grandi gruppi mediatici indipendenti, Bfm-Tv e Rmc. Immaginati quale imparzialità vi potrà essere quando qualche governo progressista latinoamericano, come il Brasile ora, rifiuta un ambasciatore israeliano… Ma, tanto per  rendermi antipatico, voglio citare anche altri attori.

Quali?
Alcune grandi organizzazioni per la difesa dei diritti umani, come Human Right Watch e Amnesty international. In nome di un’astratta visione dei diritti umani, Hrw preferirebbe veder fallire l’importante accordo di pace che dovrebbe realizzarsi quest’anno il Colombia: una soluzione politica molto complicata perché tra quel che si negozia all’Avana e quel che poi Santos applica in Colombia c’è un abisso e per questo sarà difficile parlare di post-conflitto, al massimo di post-accordo. E poi non si può chiedere alle Farc di smobilitare rischiando di farsi massacrare come ai tempi dell’Union Patriotica quando non si è risolto il problema dei paramilitari. Tuttavia, dopo oltre cinquant’anni di conflitto, i colombiani non ne possono più e bisogna sostenere quest’accordo. Hrw, invece, denuncia l’impunità delle Farc, ignorando gli attori che hanno consigliato, preparato la classe economica e politica. Il modo di analizzare un conflitto interno non è lo stesso che si applica a una dittatura, in una democrazia la catena di comando arriva fino al presidente. Per questo, all’Avana hanno proposto una Commissione per la verità che interroghi tutti gli attori economici e politici e della cosiddetta società civile. Premetto che sono stato per quattro anni caporedattore alla Chronique, la rivista di Amnesty International, e che ne apprezzo il lodevole lavoro. Tuttavia, le cose che hanno scritto sul Venezuela sono scandalose. Qualche mese fa c’era un’intervista al presidente della sezione venezuelana che definiva il Venezuela degli anni ’80, quello della rivolta per fame del Caracazo, la Svizzera dell’America latina, mostrando così il suo livello di “imparzialità”. E come si fa a definire pacifiche le manifestazioni dell’anno scorso quando fra i 43 morti vi sono anche 8 poliziotti uccisi con colpi di arma da fuoco? In fondo, gli esponenti di queste Ong sono persone di classe media, poco toccate dal fatto che i primi diritti da garantire sono quelli economici. I giornalisti devono poter continuare a dire cose scomode o controcorrente. Quando il Diplo ha denunciato che Robert Menard, fondatore di Reporters sans frontière era un uomo della Cia, tutti ci hanno dato addosso, ora che si dichiara apertamente di estrema destra, tutti hanno potuto rendersi conto che dicevamo la verità.

Per molti analisti è finito il ciclo progressista in America latina. Lei cosa crede?
Le difficoltà ci sono, ma io credo di no. Una sconfitta non significa la fine di un lungo e fecondo percorso. In Cile, dopo il primo governo Bachelet ha vinto Pinera, ma dopo quattro anni è stato mandato a casa e ora il nuovo governo Bachelet, pur non essendo di sinistra radicale, sta avviando la riforma per l’università gratuita. I latinoamericani stanno scoprendo in fretta le conseguenze del neoliberismo sfrenato di Macri. Ma voglio farle due esempi. Il primo riguarda Cuba, l’altro il Venezuela. Obama, che certamente è molto più intelligente di Bush, è stato obbligato ad ammorbidire il bloqueo dalla pressione del continente, dalle nuove alleanze solidali che si sono evidenziate nella Celac, nella Unasur e anche nell’Osa, dove gli Stati uniti rischiavano di ritrovarsi soli. La Grecia è stata obbligata a cedere al golpe finanziario perché era da sola in Europa. In America latina non è più così. L’imperialismo Usa e il sub-imperialismo europeo avranno serie difficoltà a imporre un ritorno indietro. In Venezuela, penso che assisteremo a un conflitto per radicalizzare la democrazia: non con un gioco di fioretto, perché non si tratta di una democrazia modello svizzero, piuttosto di una democrazia partecipata e protagonista, messa alla prova dai tentativi destabilizzanti della destra golpista. Una democrazia presidenziale che, come negli Stati uniti, dà al presidente diritto di veto se non condivide una legge del Congresso, come ha fatto Obama. Molto dipenderà dalla capacità di autocritica e di rigenerazione interna del chavismo. Se guardiamo i risultati, a parte i tentativi di frode della Mud in diversi dipartimenti, che sono oggetto di indagine, la destra è cresciuta solo di circa 350.000 voti, mentre il chavismo ne ha persi 1,5 milioni: quei voti non sono andati a destra, e nel voto-castigo c’è una critica di sinistra che chiede di accelerare la democrazia socialista. E il Psf farebbe salti di gioia se avesse quel 40% di voti che ha ottenuto il Partito socialista unito del Venezuela. In Francia, il primo partito è l’astensione, il secondo è il Front National. Ora, in Venezuela ci sarà uno scontro di poteri, bisognerà vedere come si schiereranno i deputati indigeni e la maggioranza della destra potrebbe non essere così schiacciante. Quando si critica il governo venezuelano per non aver ridotto la dipendenza dal petrolio e dalla importazioni, si dice una cosa inesatta. Non si tiene conto del quadro internazionale, delle relazioni esistenti nel mondo globalizzato quando Chavez è andato al governo. Non si tiene conto che, con l’aumento del benessere sono anche aumentati i consumi di alimenti che hanno assorbito lo sforzo verso la sovranità alimentare favorito dalla riforma agraria. Ma c’è una considerazione di fondo, che vale per tutte le latitudini: governare per trasformare profondamente le strutture sociali di un paese, è estremamente complicato: chi non lo capisce è perché non si è mai sporcato le mani.