Nella discussione che si è aperta anche su queste pagine rispetto alla proposta di Landini di costituire una coalizione sociale, stupisce che la maggior parte di quelli che a diverso titolo sentono l’esigenza di dar vita ad un nuovo soggetto politico della sinistra sembrano preoccupati più di inquadrare la proposta di Landini dentro la propria storia che di ragionare davvero su quel che Landini dice. Più preoccupati di dare un senso a se stessi che ragionare sul dato di novità che la costruzione di una coalizione sociale rappresenterebbe per la storia di tutti.

Landini parte dal suo mestiere, che è quello di dirigente della Cgil. Di un sindacato con alle spalle una storia gloriosa, ma con un presente difficile e un futuro a cui non si ha nemmeno il coraggio di guardare. Per due motivi. Aver tardato a comprendere e a fare le scelte conseguenti rispetto a un mondo del lavoro che si scomponeva e che non era più rappresentabile secondo le modalità consolidate, e aver cercato di compensare la perdita di rappresentanza reale nel mondo del lavoro che cambia con i rituali della concertazione e dei patti neo corporativi. Contando su una politica amica. E trovandosi dunque impreparato di fronte alla svolta decisionista del governo che allinea l’Italia al mainstream dominante, ad una semplificazione estrema dei contenuti e delle forme della democrazia, sempre più ridotta al momento della scelta di chi comanda, a cui poi spetterà decidere, libero dai vincoli del parlamentarismo e del confronto con le parti sociali.

Anche l’Italia si mette al passo coi tempi. Con un problema. Che in Italia il sindacato c’è ed ha ancora una presenza di massa ed una articolazione sul territorio. La sua resistenza all’attacco ai diritti dei lavoratori e al potere di contrattazione è diventata punto di riferimento di quei tanti, tantissimi che non accettano di essere ridotti all’individualismo massificato che è il corrispettivo antropologico del liberismo dominante. Che pensano che si è individui se si è in grado si esercitate spazi reali di autonomia e di libertà nei posti dove lavorano e dove vivono. E che provano questi spazi a tenerli aperti insieme, nelle migliaia di associazioni che ancora nutrono la nostra democrazia. E che non andranno più a votare, se il voto gli apparirà come l’unica modalità in cui la democrazia si esercita. Perché pretendono la democrazia di ogni giorno.

Il progetto di Landini è di dare una forma organizzata e stabile a questa vasta aggregazione che si è manifestata nella protesta al governo, e di trasformare una lotta di resistenza in un terreno di innovazione capace di elaborare e proporre nuovi valori e nuovi contenuti, a partire dall’innovazione del modo di essere del sindacato.

E mi pare molto significativo che recuperi molte delle idee e delle proposte di Bruno Trentin. Contro una visione puramente redistributiva del sindacato, Trentin aveva fatto della libertà e della dignità del lavoro il centro del proprio impegno di intellettuale e di sindacalista E il più politico, quello a cui ancorare una nuova idea di sviluppo e di convivenza. E negato dalla divisione dei compiti fra partiti e sindacati tipica della socialdemocrazia- «ai sindacati le rivendicazioni, ai partiti le riforme»- che metteva in un cono d’ombra le esigenze di libertà insite nelle lotte per cambiare l’organizzazione del lavoro e per promuovere la dignità e la più ampia autonomia possibile della persona che lavora.

Gli anni dei Consigli di fabbrica, dei gruppi omogenei per le salvaguardia della salute dei lavoratori, della conquista delle 150 ore per l’istruzione e la formazione – una conquista emblematica della volontà di conoscenza e di libertà che Trentin riconosceva nei punti più alti delle lotte operaie- sono quelli in cui queste idee forza sembrano animare l’intero movimento dei lavoratori. Che però si appannano dentro la crisi e gli enormi processi di ristrutturazione capitalistica, col decentramento produttivo e il moltiplicarsi delle forme si lavoro fuori dalle regole e dalle garanzie contrattuali.

Il sindacato è in crisi. Ma la crisi è per Trentin l’occasione per intraprendere un processo di trasformazione del sindacato. E’ possibile rilanciare il sindacato dei diritti, riprendere la lotta per la dignità del lavoro, se non ci si rinchiude in se stessi, e se ci si collega ai bisogni di libertà e di autonomia che sono nate nel lavoro e nella società fuori e talvolta contro il sindacato. «Occorre aprire- dirà a Chianciano- il nostro sindacato a rapporti di collaborazione, ed in alcuni casi anche di federazione, con le associazioni che partecipano da molto tempo a volte molto prima di noi a questa grande battaglia per i diritti in progresso; dalle associazioni femminili ai movimenti ecologisti, alle associazioni degli studenti e dei ricercatori, alle associazioni dei lavoratori immigrati, alle associazioni dei cittadini portatori di handicap, alle associazioni volontarie di utenti, prima di tutto nel campo della salute e della prevenzione.

Questa collaborazione può e deve consentire…una partecipazione effettiva di queste associazioni alle decisioni del sindacato sulle questioni specifiche che le impegnano, sui diritti fondamentali che esse intendono promuovere. per esempio attraverso la stipula di veri e propri patti e convenzioni fra la Cgil e le diverse associazioni, fissando i limiti ma anche i vincoli di questa collaborazione».

Credo sia un merito di Landini aver richiamato e ridato vita a questa elaborazione,. E credo che quanti oggi ragionano su come costruire una sinistra di governo antiliberista dovrebbero salutare come una straordinaria opportunità questo generoso progetto di ripoliticizzare la società. Che è la premessa per l’esistenza di una sinistra che voglia proiettare nel futuro le sue radici e si suoi valori.

Purché non pensi subito a declinarla in termini di partito. Purché non la pensi come acqua nuova per riempire botti a dire il vero già in via di logoramento.
La sinistra di governo che verrà sarà tale se saprà pensare se stessa e la stessa funzione di governo non come il vertice di una piramide ma come il nodo di una rete. Se saprà farsi strumento del crescere della capacità di autogoverno delle persone e delle libere associazioni di persone. Perché «l’utopia del quotidiano», che era l’unica utopia possibile per Bruno Trentin, si esercita nei luoghi di lavoro e di vita, e non nei luoghi della politica istituzione. Si rovesciano i termini.

La coalizione sociale non è strumento per la costruzione di in nuovo partito, ma i partiti, vecchi e nuovi, dovranno misurarsi con la coalizione sociale, e saranno valutati in base alla loro capacità di farla crescere, senza pretendere di egemonizzarla.

Certamente non sono uguali i politici che votano il job act e quelli che votano contro. E non sono uguali gli amministratori che smantellano il welfare locale accettando i diktat dell’authority europea, tradotti puntigliosamente nella finanziaria renziana, e quelli che si oppongono, e immaginano nuove forme di welfare e di sviluppo locale. Quelli che “decidono”, e quelli che sanno che sul territorio nessuna azione di sviluppo sostenibile-dal risparmio energetico, alla raccolta differenziata del rifiuti, alla salvaguardia dei beni culturali e ambientali- è possibile senza la partecipazione diretta dei cittadini e delle loro associazioni, senza quella che Fabrizio Barca ha chiamato la mobilitazione cognitiva, come ragion d’essere fondamentale di un nuovo modo di far politica. E sulla volontà e capacità di aprire questi spazi di autogoverno che la politica sarà valutata.

La sinistra che vuol farsi sinistra di governo deve finalmente fare i conti col fatto che la sua stessa pretesa di governare- in Europa, nella nazione, nelle Regioni, nei comuni- è strettamente legata al crescere di un sociale che farà politica oggi e domani con modalità sue proprie, irriducibili alla politica dei partiti. Senza le quali non solo non c’è possibilità di aspirare al governo, ma non c’è nemmeno sinistra.