La Costituente dei Beni Comuni vede la luce in un momento politicamente molto confuso e certamente pieno di insidie per la buona riuscita dell’iniziativa. La sostanziale uscita dalla scena della sinistra politica, che ha fatto seguito allo psicodramma postelettorale culminato nei quattro giorni che sconvolsero l’Italia, costringendo Napolitano ad accettare un secondo incarico, ha lasciato (per meglio dire: rivelato) un vuoto che, adesso, si vorrebbe provare a riempire il più rapidamente possibile, quasi che quello che è accaduto fosse il frutto del caso maligno (o della dabbenaggine di Bersani) e non il punto di arrivo di una parabola iniziata già da molti anni. Così, favorito dalla presenza autorevolissima di Stefano Rodotà e dal suo tema, attorno alla Costituente si è creato un clima strano, di attesa e di speranza, come se da lì, anche se non soltanto da lì, potesse venire una qualche indicazione sul modo in cui ricostruire la sbrindellata sinistra italiana.
Ora, è evidente che un lavoro di elaborazione teorica e di inquadramento normativo della magmaticissima categoria dei beni comuni, riveste un significato immediatamente politico riflesso della politicità delle lotte e delle pratiche che attorno ai beni comuni si sono andate sviluppando negli ultimi anni (dai referendum alle occupazioni), cioè le uniche cose di sinistra che siano state dette e fatte in Italia da molto tempo a questa parte. Tuttavia, sarebbe un errore pensare di tradurre questa politicità dell’oggetto in una politicità del soggetto, come se la Costituente potesse essere il luogo di elaborazione di una strategia politica o, peggio, elettorale, ovvero la sede dell’ennesima mediazione tra le varie “anime” della sinistra che, viceversa, si spererebbero definitivamente morte.
Sotto questo profilo, l’aggancio con la “Convenzione per la democrazia costituzionale” rappresenta oggettivamente un rischio. Tutti sanno che nei prossimi mesi il governo in carica, e la maggioranza che lo sostiene, proveranno a creare un tavolo per le grandi riforme (l’ennesimo) e che, dunque, su questo terreno si svilupperà buona parte di quello che resta di un minimo di dialettica politica. Insomma, felicemente deprivati di qualsiasi sovranità in materia di politica economica, Pd e Pdl metteranno in scena il balletto del nuovo patto costituente il quale o non partorirà nulla o ci regalerà qualche originale proposta benedetta da saggi equamente suddivisi per aree.
Sono convinto che tutto quello che di male si poteva fare alla nostra Costituzione è stato fatto: ma siccome so che, invece, per molti compagni e colleghi quella è una postazione da difendere e rilanciare, si lavori pure su quel fronte, ma avendo chiaro che si tratta di un fronte immediatamente politico, dove pensiero, cultura, progettazione istituzionale, sguardo lungo peseranno molto poco e tutto si giocherà pensando al successivo giro elettorale.
Al contrario, la Costituente, se vuole essere all’altezza dei compiti che, ambiziosamente, si è data, deve lavorare di cesello, misurandosi con questioni enormi e mettendo in azione un’inventiva costituente che sappia raccogliere e, in pari tempo, dare una risposta alle domande inedite e drammatiche poste dal referendum e dai mille focolai di lotta accesi in tutta la penisola: perché, è bene saperlo, da lì sono venute molte cose ma non è venuto tutto. Costituente e Convenzione possono incontrarsi, dialogare, collaborare: ma è bene che i due orizzonti non si fondano. Quanto al resto, lasciamo traghetti e barche al loro destino: ci vorrà ben altro per rifare la sinistra (politica) in questo paese, dopo un lungo ciclo di devastazioni, ammesso che sia possibile e che ne valga la pena.