La solidarietà alla Francia per il massacro di Parigi non è di maniera. È stato colpito un paese a noi stretto da profondi e antichi legami, e sappiamo che potrà accadere anche a noi.

In molti paesi la comunità musulmana è di gran lunga la più forte delle minoranze, e difende la propria cultura e la propria fede. È ormai un lontano ricordo il melting pot che, fino agli ultimi decenni del secolo scorso, era simbolo di integrazione nel mainstream del paese ospitante. Oggi l’unica via è quella di un multiculturalismo che la minaccia terroristica assoggetta a una pressione crescente. Ancor più perché – a quanto si dice – migliaia di cittadini europei vanno a combattere per il califfato. Torneranno? Con quali intenzioni? Terrorismo di importazione e terrorismo domestico si confondono. Questo sembra appunto il caso per la strage di Charlie Hebdo. E corriamo due gravi rischi.

Il primo è che per prevenire attacchi si comprimano i diritti e le libertà. È già successo. Negli Usa lo dimostrano Guantanamo, il Patriot Act e lo spionaggio di massa della Nsa. Casi come Holder v. Humanitarian Law Project, 561 U.S. 1 (2010), in cui la Corte Suprema discute se esprimere una opinione politica può configurarsi come aiuto materiale ai terroristi, ci dicono che nemmeno il più solido pilastro del costituzionalismo americano – il free speech – è al sicuro. In Gran Bretagna vediamo analoghe vicende con il Terrorism Prevention and Investigation Measures Act del 2011 e l’ampio ricorso agli Asbo (Anti-social Behaviour Orders), con i quali un giudice può vietare in pratica qualsiasi comportamento o attività sia ritenuto sospetto o socialmente pericoloso. In Francia e in altri paesi si discute di limiti alla libertà di espatrio e di ritiro del passaporto per chi ha simpatie per l’Isis. E non dimentichiamo che per noi brigate rosse e legislazione di emergenza sono storia recente.

Il secondo rischio è che la ricerca di risposte sul piano della repressione penale renda impraticabile la via di una convivenza multiculturale già di per sé difficile. Terrorismo ed eversione sono noti al codice penale italiano (in specie, cod. pen., art. 270, 270 bis, ter, quater, quinquies e sexies). Ma il punto è se le norme vigenti siano adeguate nella repressione di un terrorismo che non assume la forma di organizzazioni complesse volte a obiettivi strategici, ma si realizza in atti isolati da parte di individui o piccoli gruppi spontanei. Un terrorismo diffuso e molecolare, come forse mostrano le rinnovate uccisioni in Francia. Come si può prevedere, chi, dove, quando? Quanto deve essere pervasiva e occhiuta la vigilanza per acquisirne consapevolezza? il rischio di risposte orwelliane e da inquisizione è chiaro. Ed è altresì chiara la contraddizione tra un multiculturalismo indispensabile e politiche repressive parimenti necessarie.

È una contraddizione che richiede strumenti politici, non il codice penale. Chi ha vissuto gli anni di piombo ricorda come decisiva non solo la risposta giudiziaria, ma ancor più quella data dalla politica e dalle istituzioni. Fecero muro contro l’attacco terroristico, anche se non mancarono lacerazioni gravi, come in occasione del rapimento e dell’uccisione di Moro. Fu una grande rete di protezione che avvolse il paese.
Ma qui è il punto. Quella politica era forte, perché fondata su corpi intermedi – partiti e sindacati – di massa e profondamente radicati, in grado di costruire consenso intorno alle politiche di contrasto al terrorismo. Le istituzioni erano forti perché compiutamente rappresentative, espressione vera del paese e del suo popolo, luoghi di confronto reale in cui definire scelte di governo condivise.

Vediamo invece oggi un punto di debolezza. Un premier palesemente allergico a corpi intermedi, che riesce a vedere solo come ostacolo al proprio potere. Partiti dissolti, sindacati emarginati, istituzioni non rappresentative, subalterne all’uomo solo al comando e ridotte a simulacro. Una politica fatta di tweet, conferenze stampa e comparsate televisive. È una condizione drammaticamente negativa, che le proposte di riforma in discussione – anche incostituzionali – peggiorano e consolidano. Possiamo solo aggiungere il tentativo di imbavagliare la stampa e ancor più le forme nuove di comunicazione che potrebbero contribuire alla costruzione del consenso. Basta leggere il testo approvato in Senato, il 29 ottobre 2014 (AS 1119 e connessi), con modifiche alla legge sulla stampa, applicabili anche alle testate giornalistiche on line.

Quali istituzioni per la lotta al terrorismo? Quali istituzioni per la crisi? Due domande cui viene oggi data la medesima risposta, sbagliata. Una primaria parola d’ordine allora, anche per il terrorismo, è: invertire la rotta. Aprire la politica e le istituzioni, non emarginare ed escludere. Dare spazio a tutte le voci, non mettere bavagli. Ricostruire il radicamento delle forme organizzate della politica e i luoghi delle decisioni collettive, non proseguire sulla strada del populismo leaderistico e del potere personale esercitato in solitudine.

Solo così potremo scommettere sulla speranza, e non sulla paura. Solo così potremo evitare risposte orwelliane e ondate lepeniste. E soprattutto potremo vincere. Perché il terrorismo si sconfigge nelle coscienze, prima che nei tribunali.