Stefano Caserini è ingegnere ambientale e titolare del corso di mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. Da anni si occupa delle strategie di riduzione dei gas climalteranti e della comunicazione del problema dei cambiamenti climatici.

Improvvisamente il mondo si scopre ambientalista e la lotta ai cambiamenti climatici sembra essere in cima ai pensieri dei potenti. In realtà quali aspettative genera il vertice Onu di New York tra gli addetti ai lavori?

Purtroppo la lotta ai cambiamenti climatici non è in cima ai pensieri dei potenti, o dell’opinione pubblica. L’appuntamento di New York si inserisce nei lavori della Convenzione sul Clima dell’Onu, sono 22 anni che si sta negoziando su questo tema. Il protocollo che oggi è in discussione è molto più ambizioso di quello approvato a Kyoto. Nel 1997 si era deciso di assegnare impegni di riduzione dei gas serra solo ai paesi industrializzati, e c’era molta differenza con i cosiddetti paesi in via di sviluppo; oggi la situazione è molto cambiata, è essenziale coinvolgere in un nuovo accordo paesi come Cina, Brasile o Sudafrica. Certo con impegni differenti, ma il nodo è “quanto differenti”. Ecco perché è un accordo difficile: si tratta di declinare nel concreto il principio di equità alla base della Convenzione sul Clima, con conseguenze anche sugli equilibri geopolitici mondiali.

Quali sono i problemi più seri da affrontare per far sì che la decisiva conferenza di Parigi del 2015 non si concluda con un nulla di fatto?

Gli Stati Uniti vogliono ottenere più impegni vincolanti dalla Cina, e la Cina sostiene che sono gli Usa e altri paesi industrializzati a non fare abbastanza. Con l’amministrazione Obama gli Stati Uniti hanno fatto diversi passi avanti, anche se il Senato continua ad essere in mano alle potenti lobby del petrolio e del carbone. Sarà cruciale avere il consenso di Usa e Cina, ed evitare altre frenate o voltafaccia, come quelli di Giappone, Canada, Russia o Australia.

Detta così, sembra impossibile trovare un accordo per salvare il pianeta.

A mio parere i gruppi dirigenti di molte delle principali potenze mondiali hanno chiara la gravità della situazione e alcuni hanno anche compreso che puntare sulla lotta ai cambiamenti climatici può essere la chiave per dare forma a un nuovo modello di sviluppo. Ma le lobby sono potentissime ovunque e riescono ancora a condizionare i Parlamenti, oltre a una larga fetta dell’opinione pubblica. Pochi hanno chiaro che per i paesi di più antica industrializzazione, più responsabili degli attuali livelli di CO2, come noi Europei, la strada è segnata, non c’è alternativa: entro il 2050 dovremo ridurre di almeno l’80% le nostre emissioni. Significa dover cambiare radicalmente il sistema energetico basato sui combustibili fossili, indipendentemente da quello che decideranno di fare Cina o India.

L’obiettivo del contenimento del riscaldamento globale entro 2 gradi è raggiungibile? E, soprattutto, sarebbe sufficiente ?

Visti i livelli attuali di gas serra, e la tendenza all’aumento, è inevitabile che nei prossimi decenni si verifichi un ulteriore aumento delle temperature medie globali, di poco meno di 1 grado. Oggi siamo a + 0,9, quindi il livello massimo di 2 gradi da non superare entro 2050 è un obiettivo raggiungibile. Richiede però sforzi enormi, bisogna iniziare entro pochissimi anni a frenare e poi diminuire le emissioni, mentre oggi le stiamo aumentando del 2% all’anno. C’è un problema legato all’”inerzia” del sistema tecnologico, ma il blocco vero è di natura politica. Quei 2 gradi non sono una soglia di sicurezza o di non ritorno; sono ormai più che altro una sorta di frontiera psicologica, per chi da anni si è dato quell’obiettivo. Con 2,1 gradi di aumento non sarà molto diverso da 1,9 gradi, e i danni li stiamo già verificando ora che siamo solo a metà di questo aumento.

Ma se la catastrofe ha origine nei meccanismi che regolano il sistema capitalista, lottare contro i cambiamenti climatici non significa di fatto chiedere la rivoluzione senza fare la rivoluzione?

C’è la tesi sostenuta nell’ultimo libro di Naomi Klein, e cioè che il capitalismo non è compatibile con il nostro pianeta. Secondo altri economisti il riscaldamento globale rappresenta una distorsione del mercato, perché chi emette i gas serra non paga per i danni che essi causano; quindi la soluzione sarebbe far pagare un prezzo alla CO2, e si discute su come si dovrebbero ripartire i proventi: c’è chi propone di usarli per combattere le disuguaglianze e favorire l’accesso alle energie pulite dei più poveri.

E lei da che parte sta?

Da un lato penso che gli economisti liberali dovrebbero spiegare come mai questa ricetta non è stata applicata negli ultimi quindici anni; chi sostiene che l’attuale modello finanzcapitalistico, per dirla con Luciano Gallino, sia strutturalmente incapace di porsi dei limiti, ha argomenti solidi dalla sua parte. D’altra parte non possiamo aspettare di cambiare il sistema economico globale per ridurre le emissioni, i correttivi all’attuale modello sono necessari da subito. La rivoluzione dei prossimi tre decenni dovrà riguardare il sistema energetico mondiale; poi il sistema economico globale ha tanti altri problemi che è comunque urgente affrontare.

Cosa ne pensa delle straordinarie manifestazioni di New York?

Più di un milione di persone in tutto il mondo sono scese in piazza nello stesso giorno per chiedere di affrontare seriamente questo problema. È un movimento concreto e ambizioso, che chiede alla politica di dettare nuove regole sui gas serra, di cambiare direzione. Ma se guardo le reazioni di molti commentatori, vedo forte la tentazione di “buttarla in politica”, di affrontare il tema del cambiamento climatico come se si trattasse solo di una battaglia ideologica; questo atteggiamento potrebbe farci perdere altri dieci anni.

Secondo lei sarebbe sufficiente agire all’interno di questo sistema cercando di favorire soluzioni tecnologiche e stili di vita più compatibili con la salute del pianeta? Insomma, la cosiddetta green economy.

Se per green economy si intende riconvertire il sistema produttivo per renderlo compatibile con i limiti del pianeta, mi sembra il minimo. Ma dobbiamo ricordare che le soluzioni buone per un’élite di cittadini non bastano, nel mondo ci sono miliardi di persone che non hanno accesso all’energia o che hanno una fame di energia che noi nemmeno riusciamo ad immaginare. Le azioni dal basso servono, ma per cambiare il sistema energetico a scala globale servono investimenti ingenti, sono decisioni politiche, scelte strategiche che devono essere discusse dai governi, a questo servono i negoziati sul clima.

E più dal basso? Stiamo prendendo coscienza del problema?

Non direi. Alle primarie, nelle campagne elettorali, alle ultime elezioni europee, non si è mai parlato di cambiamenti climatici. Non è un tema dell’agenda politica Italia. La consapevolezza di quanto la questione sia importante è scarsa, e in questo le colpe sono anche dei mezzi di informazione, che parlano poco e male della questione climatica. Oggi le politiche di austerità imposte impediscono ai Comuni di investire per qualsiasi progetto innovativo.

Che si fa? Ecco un’altra rivoluzione

Un primo passo sarebbe collocare gli investimenti sul clima e sull’energia fuori dal patto di stabilità per rimettere in circolo politiche virtuose. Questo tema dovrebbe essere centrale in tutte le politiche che guardano al futuro. Non solo sul modo di produrre e consumare energia. Ma sui sistemi insediativi, i trasporti, i processi industriali, agricoltura e alimentazione

A proposito, non mi sembra che si parli di clima in EXPO.

Si dovrebbe fare di più. La questione dei cambiamenti climatici dovrebbe essere centrale per il tema di EXPO 2015, “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”. I cambiamenti climatici avranno in futuro enormi ripercussioni sulla sicurezza alimentare di molte nazioni. E agricoltura e alimentazione sono settori che possono aiutare a far cambiare direzione alle temperature del pianeta.