Da cittadino che ha vissuto i terribili episodi di Macerata, vorrei soffermarmi sui commenti che si ascoltano nei negozi, nei bar o in giro per la città. Commenti che già prima capitava di sentire ma che non credevo fossero la spia di un pensare così radicato e diffuso.

Sembra, da questi incontri casuali, che buona parte dei maceratesi abbia smarrito il proprio senso di umanità: la sparatoria contro gli uomini e le donne neri incontrati per caso è ritenuta, in questi commenti così diffusi, giustificabile. Magari si ammette che «non sta bene» sparare per strada, tanto più che si mettono a rischio le persone che non centrano, con l’implicita assunzione che invece gli uomini e le donne di origine africana sono tutti colpevoli per nascita. Ma, viste le analogie con un altro fatto di cronaca nel modo raccapricciante in cui si è tentato di occultare i cadaveri delle povere ragazze, perché non prendersela con tutti i tramvieri, dato che tramviere è l’assassino di pochi giorni fa nel milanese?

Qualche mite pensionato arriva a proporre di lasciare morire in mare gli immigrati, così magari l’Europa accetterà di accogliere gli emigranti. Si mettono sul piatto della bilancia due aspetti e si traggono infelici conclusioni. Da un lato la vita degli immigranti, che «attratti dal nostro mitico welfare e dal miraggio della bella vita», hanno affrontato violenze e pericoli estremi.

E sull’altro lato della bilancia si mette il fastidio che il comportamento di alcuni di loro suscita quando li vediamo girare senza nulla da fare, oppure quando ci chiedono l’elemosina o quando sono reclutati come manovalanza dai signori della droga.

Accettano il male come normale. Un ceto diventato medio da pochi decenni, vive ora l’incubo di tornare proletariato, in una città di provincia tranquilla e tutto sommato al riparo dagli effetti più devastanti della crisi, si chiude nella contemplazione e nella difesa del residuo benessere, illuso, da una propaganda criminale, che il capro espiatorio cui imputare tutto il proprio disagio siano gli immigrati, possibilmente neri. La legge Bossi-Fini, che nessuno ha pensato di modificare, si è rivelata un incitamento a delinquere, dato che in base ad essa gli immigrati “economici” possono avere un permesso di soggiorno solo se arrivano in Italia già con un regolare contratto di lavoro, mentre gli altri dovrebbero uscire dai confini nazionali a loro spese. Il rimpatrio forzato non dovrebbe né potrebbe essere di massa, perché ingiusto e perché costa molto e presuppone un trattato con il paese di destinazione, che non è facile ottenere. D’altra parte chi fugge da un paese come la Nigeria, in cui la speranza di vita alla nascita, secondo la classifica dell’Onu è di 46,9 anni, per raggiungere un paese che vanta una speranza di vita di 82 anni qualche ragione umanitaria la potrebbe accampare.

In questo clima il sindaco Pd di Macerata ha chiesto a tutti, ma in realtà in particolare a coloro che avevano indetto la manifestazione nazionale antirazzista e antifascista, di rinunciare, in nome di una città «smarrita» e del «ritorno alla normalità». Il prefetto ha poi vietato tutte le manifestazioni, ispirato, si è scoperto, dal ministro Minniti, salvo poi dover tornare indietro. Le istituzioni locali rinunciano ad essere protagoniste della mobilitazione democratica e il ministro dell’interno rinuncia al suo dovere di garantirne il pacifico svolgimento e minaccia repressione. Un atteggiamento singolarmente speculare a quello dei concittadini che difendono il proprio «particulare», rinunciando a ogni valore, moderna versione del familismo amorale, sempre in nome della difesa della tranquillità e normalità.

Il sindaco non si rende neanche conto che proprio così si provocano le possibili risposte violente dei temuti (dal sindaco e dal ministro) centri sociali.

Ma più importante è ribadire che il ritorno a una normalità non dominata dalla banalità del male impone che chi non ha ancora perso il lume della ragione faccia sentire la sua voce, a partire da Macerata, e non sia lasciato solo e muto. È essenziale che l’altra parte dell’opinione pubblica mostri la sua forte presenza e non lasci l’egemonia all’avversario. È essenziale che si sappia che sono tanti coloro non rassegnati alla banalità del male e semplicemente, per proporre uno slogan che forse racchiude tutti gli altri, vuole dire ad alta voce: Humanity first, prima l’umanità. Questo percorso deve continuare dopo la manifestazione ed essere guidato dalle istituzioni culturali della città, e in particolare dall’Università.

Occorre esprimere noi stessi e mettere davanti a uno specchio i nostri borghesi piccoli piccoli e meschini prima che sia troppo tardi. Potrebbero avere ancora orrore di sé. O dovremmo forse rassegnarci al crescere delle organizzazioni nazi-fasciste, e alla diffusione, forse ancora più inquietante, di questo banale nazismo in versione italiani brava gente?