Wande, è il quinto album del chitarrista blues e cantante, Samba Touré, originario di un piccolo villaggio nella regione di Timbuctu, situato nel Nord del Mali, ormai squaciato dall’occupazione delle milizie integraliste. Wande, il terzo per la Glitterbeat, prende il titolo dal brano che in lingua songhai si traduce in una dedica struggente all’amata moglie; costruito su pentatoniche meste e dolenti, Wande è una sorta di quintessenza di quel blues «nordico» che sgorga dall’amalgama fluorescente di cordofoni elettrici (basso e chitarra) e il suono arcaico del violino soku.

Non che Samba Touré abbia abbandonato in toto le atmosfere scure, la tensione cupa, che caratterizzavano i due album precedenti, in particolare, Albala («pericolo»), maturato proprio quando il Nord del Mali cadeva sotto il controllo dell’Islam radicale e le leggi della sharia, nel 2012, anche perché la situazione resta critica. Sono lì a testimoniarlo titoli come Yerfara, (We Are Tired), un rock blues incisivo, con le impennate sferzanti senza plettro, Irganda (It is Our Land), Hayame (Be Careful), o la corrosiva Mana Yero Koy (Where To Go?), seducente sintesi di risonanze songhai e le pentatoniche distorte del rock-blues. Ma un limite nella ricezione del messaggio è rappresentato senz’altro dall’assenza della traduzione dei testi.

Goy Boyro (The Good Work), è resa più accessibile dalla trasposizione in videoclip per immagini d’archivio e d’animazione, in bianco e nero, che alternano il passato e gli antichi bagliori della lotta per i diritti civili negli States con sketch che simboleggiano l’impoverimento del Paese a causa della fuga dei giovani all’estero, troppo spesso costretti a confrontarsi con l’indifferenza e il razzismo. Prodotto dal «solito» Philippe Sanmiguel al timone anche per i due precedenti Gandadiko (2014) e Albala (2012), il disco guadagna in scioltezza e spontaneità e Samba Touré sembra possedere una nuova, elegiaca libertà di composizione , mentre la voce, ancora più ricca di sfumature melanconiche, è irenica.

I testi mantengono il realismo e la sofferta semplicità e le strutture più antiquate per resuscitare quello spleen esistenziale tipico del blues. Ma non chiamatelo desert blues, o afroblues, perché non ha senso, avverte Samba Touré, rigettando così le etichette esotiche quand’anche non etnicizzanti, frapposte da europei e americani, fra le distorsioni e il delta, del Niger però.