Lo scorso primo ottobre è scomparso Chahnourh Varinag Aznavourian, per tutti Charles Aznavour o Azná, solo pochi mesi fa ascoltato in Italia nel corso di una bella tournée che lo vede in gran spolvero, calcando il palcoscenico tra la sicurezza e la nonchalance del classico mattatore in grado di commuovere e divertire, appassionare e stupire, proprio come l’istrione di cui parla uno dei suoi brani più noti. Non potrà più cantare fino a cent’anni, come promette e come vorrebbe, giacché il suo cuore si ferma a novantaquattro, ottantacinque dei quali vissuti intensamente nel mondo della chanson française, a sua volta, splendida protagonista assoluta della complessa storia della musica moderna, almeno per tre-quattro decenni attorno alla metà del XX secolo. Sì, perché quando si parla di song, canzoni o canzonette, produzione leggera oppure popular o ancora variété, come si dice in lingua francese, spesso è facile dimenticare, rispetto ai trionfi dei modelli angloamericani, il primato dell’Europa continentale su concertismo e discografia di tipo extracolto per quasi tutto il Novecento, pur con qualche incursione partenopea a inizio secolo (e iberica, tedesca, slava qui e là) e nonostante il crescente predominio statunitense e britannico (decisivo negli ultimi decenni).
C’è per la chanson française un periodo aureo sia storico sia socioculturale, «racchiuso» in almeno due avvenimenti epocali che ne contraddistinguono rispettivamente l’ascesa e il lento, forse inesorabile declino: gli Impressionisti e il Sessantotto. All’inizio l’affermarsi della pittura en plein air, accanto ai poeti maledetti, al cabaret parigino, al café-chantant, in quell’euforico clima avanguardistico «fin du siècle» e «belle époque» mirabilmente inscenato nel film Moulin Rouge (2001) di Baz Luhrmann, il quale tuttavia impiega celebri brani pop-rock per la colonna sonora nel re-immaginare le gesta di Toulouse-Lautrec e delle ballerine di can-can, partendo dall’idea che si tratti di un periodo musicalmente sbiadito agli occhi contemporanei, salvo l’allora innovativa musica dotta di Claude Debussy, Erik Satie, Gabriel Fauré. Insomma la fase prediscografica e precinematografica della primissima canzone autorale francese oscura in parte il talento del capostipite Aristide Bruant, della cui memoria resta sopratutto l’immagine visiva diffusa da quadri e manifesti del citato Henri de Toulouse-Lautrec.

MOSTRI SACRI
Occorre passare direttamente ai novecenteschi anni Trenta per scoprire una personalità in grado di imporsi con la sola forza della propria singolarissima voce a una platea ormai vicina a un universalismo mediatizzato: Édith Piaf, prima e dopo la seconda guerra mondiale, resta, soprattutto, in musica, l’interprete che incarna un french-style che profuma di Montmarte e Montparnasse, di Senna e Costa Azzurra, «stile» all’epoca diffuso ovunque, dalla cucina alla filosofia, dai romanzi ai film, dalla prosa alla danza, dai quadri alle architetture, dalla haute couture al pret-à-porter. Non va infatti dimenticato che la Ville Lumière, dagli Impressionisti al Sessantotto, risulta la capitale del Pianeta per quanto riguarda la cultura a 360°: e nonostante l’ascesa di altre metropoli come New York, proprio durante «les années Piaf», Parigi accoglie, misura, spinge, amplifica tantissime novità artistico-intellettuali che si chiamano via via via esistenzialismo, teatro dell’assurdo, oulipo, nouveau roman, letterismo, musique concrète, nouvelle vague, art brut, nouveaux réalistes.
Nel mondo della canzone Édith è generosissima a lanciare giovani talenti, spesso a lei vicini anche sentimentalmente, da Yves Montand a Léo Ferré, da George Moustaki fino ad Aznavour medesimo; benché partita dai popolareschi valse musette, intonati, fin da ragazzina, per strada onde elemosinare qualche franco, la stessa Piaf consolida o addirittura inventa un raffinato teatro-canzone con l’aiuto di brillanti collaboratori (discografici, manager, parolieri, musicisti, orchestrali, solisti). È un modo di cantare partecipato, autentico, sofferto, dove le parole diventano un breve psicodramma, anche quando si tratta solo d’amore o di ricordi: uno spettacolo musicale «intimo», benché con i numeri dei grandi pubblici – l’Olympia in rue des Capucines ne è simbolicamente la casa madre – favorendo lo sviluppo della tipica chanson française, come persino l’allora neonata televisione farà conoscere in tutt’Europa dagli anni Cinquanta finanche dopo il Sessantotto, persino quando alcune tipologie di pop-rock francese – in particolare la chanson rock di Higelin, Bernard Lavilliers, Renaud, Véronique Sanson, vere star in patria, preceduti dallo stile yé-yé diffuso anche in Italia con Johnny Halliday, Sylvie Vartan, Nino Ferrer, Françoise Hardy, come del resto il beat di Antoine e Polnareff o il melodismo di Adamo, Dalida, Mireille Mathieu – prendono il definitivo sopravvento, senza che nessuno continui a perpetuare la lezione di «mostri sacri» quali Charles Trenet, Gilbert Bécaud, George Brassens, Jacques Brel, Colette Magny, Barbara, Serge Gainsbourg, Claude Nougaro, Boby Lapointe, Guy Béart, artisticamente nati con e dopo la Piaf e giunti ora verso l’epilogo con la scomparsa di Aznavour (resta solo Juliette Greco, unica superstite di una stagione formidabile).

EQUIVOCO LINGUISTICO
Su questi personaggi ormai «classici», venerati dai francesi spesso con l’idea del genio assoluto, in Italia pervade ancora un grosso equivoco sul piano linguistico, di cui persino fonti autorevoli come il Dizionario Treccani, accettano la vulgata corrente: Aznavour e compagni vengono denominati «chansonniers» fin dagli anni Cinquanta, grazie all’enorme popolarità della quale godono per circa un ventennio sia alla Rai sia per i 45 giri venduti, sovente tradotti e cantati in italiano da loro stessi su entrambi i lati. Sono gli anni, del resto, in cui il produttore Vincenzo Micocci conia il termine «cantautore» per indicare chi scrive e interpreta i propri brani, alludendo non solo ai protetti Gianni Meccia e Nico Fidenco, ma in particolare alla scuola genovese di Gino Paoli, Luigi Tenco, Umberto Bindi, Bruno Lauzi o a quella milanese di Giorgio Gaber e Enzo Jannacci. Ma cantautore non è la traduzione del francese chansonnier, che in origine denota il canzoniere poetico (come quello di Petrarca) oppure l’intrattenitore umoristico o il comico teatrale (più o meno un buffo cabarettista che alterna sketch a canzoncine).
In Francia insomma manca una parola affine o simile a cantautore e neppure esiste un termine vicino all’angloamericano folksinger usato, stando alla traduzione letterale, per definire un neo menestrello delle tradizioni popolari e, solo dopo Woody Guthrie e soprattutto Bob Dylan e Joan Baez, per designare chi compone ed esegue canzoni impegnate. I francesi al posto di cantautore e folksinger adoperano l’espressione compositeur-auteur-interprète (di rado abbreviata in c.a.i.) che ha forse il solo pregio di ribadire il physique du rôle professionale di Aznavour e colleghi; ma l’asettica definizione fra professionalità e professionismo da sola non basta a illuminare i valori che, dalla Piaf ad Aznavour, passando attraverso i vari Brassens, Bécaud, Brel, vengono artisticamente espressi, accogliendo, soprattutto in concerto, molteplici stimoli culturali, a cominciare dalle qualità tecnico-espressive del teatro di prosa: oltre le parole e le musiche, tutto, nella grande chanson française, ruota attorno a un afflato drammaturgico, dalla recitazione alla messinscena, dalla regia alle luci, dai «costumi» al trucco.
Basti ascoltare e guardare i personaggi sopracitati, dove la figura umana resta protagonista in mezzo al palcoscenico nudo o con fondali neutri (o ridotti al minimo), mentre l’orchestra ritmosinfonica si nasconde nel golfo mistico: l’occhio di bue inquadra la silhouette intera di solito vestita di nero (camicia e pantaloni per i maschi, abito lungo o tubino per le donne). Ritto davanti al pubblico l’eroe/antieroe, si chiami Piaf o Aznavour, è teso a raccontare e raccontarsi, metà vocalist, metà attore, sul palco, in ogni canzone, mette tutto sé stesso a partire dai gesti, dai movimenti, dagli sguardi, dalle smorfie facciali: le doti comunicative vanno anche oltre la musica e la parola, al punto che quasi tutti i compositeurs-auteurs-interprètes svolgono in parallelo importanti carriere cinematografiche, su tutte il Charlie Kohler/Edouard Saroyan di Aznà, in Tirate sul pianista (1960) di François Truffaut, resta impareggiabile.
Non c’è solamente attorialità. La grande chanson française rompe con i vecchi stereotipi canzonettisti, rifiutando i locali folklorismi per aprirsi a un gusto moderno talvolta jazzato, talaltra profondamente romantico, anche in virtù dei forti legami fra la parte sonora e quella letteraria; pur affrontando quasi sempre vicende sentimentali, i versi, talvolta appena sussurrati, talaltra urlanti per gioia o disperazione, narrano o evocano l’amore in maniera anticonformista, prosaica, quotidiana, autobiografica, sino a intensi frammenti di autocoscienza.
Sul perché questo tipo di chanson in fondo respinga l’urto del Sessantotto, senza lasciare eredi, continuatori o epigoni, vengono presentate anche diverse teorie e contraddittorie spiegazioni: innanzitutto, chi è già affermato, resta ancora in sella per molti anni, quasi sempre giungendo artisticamente integro e attivo sino alla fine dei propri giorni. Nei giorni del Maggio francese e della contestazione generale spicca solo la politicizzata Colette Magny; del resto la Piaf è morta da un lustro, Montand continua a fare cinema militante (e dichiararsi comunista), Brel si fa crescere lunghi capelli da giovane hippie, Ferrat cavalca l’onda dell’engagement, Brassens acclamato a furor di popolo accetta lo scettro di padre nobile delle rivolte giovanili, il solo Ferré, anarchico da sempre, non gradisce (testimone il brano Paris je ne t’aime plus), rifugiandosi in Toscana sino a miglior vita. Aznavour invece continua imperterrito, tra La Bohème, Que c’est triste Venise e Désormais, la sua «battaglia» esistenzialista, con quel misto di limpida determinazione e ragionevole pessimismo che ancora gli fa dire, nell’ultima intervista (a Paola Jacobbi per Vanity Fair), quando lei accenna all’eternità delle sue canzoni: «Calma. Di eterno non c’è niente. Forse qualche Piramide in Egitto».

FUORI I DISCHI

Quindici grandi album, tutti dal vivo (la maggior parte all’Olympia, fondata nel 1889 proprio con l’idea di diffondere la grande canzone) per meglio riscontrare le doti comunicative d’ascendenza teatrale che ogni artista possiede nel coniugare testo, musica, interpretazione in pubblico.

Charles Aznavour et ses amis, À l’Opera Garnier, 2008 (2 cd)
Per conoscere l’immenso songbook (circa milletrecento canzoni) questo doppio cd con ventisei brani ultranoti celebra – forse un po’ enfaticamente negli arrangiamenti orchestrali e negli «amici» ospitati (perlopiù giovani vedettes francesi, poco note in Italia) – il genio sincero di un poeta/musicista nostalgico, filosofo, innamorato della vita e della giovinezza, ma che non dimentica la lotta per i diritti civili in una ballata dolente come Per toi Arménie.

Charles Aznavour, Face au public, 1968
Il Sessantotto per Aznà si chiama Olympia dove registra il tutto esaurito per spettacoli oniricamente coinvolgenti, basati sul triangolo parole-musica-interpretazione, dove la cifra attoriale viene sottolineata in ciascuno dei tredici brani presenti, da Le cabotin a J’amerai, da Tout s’en va a Il faut savoir. Una curiosità: l’edizione italiana dell’album ha l’aggiunta in caratteri verdi di Dal vivo a l’Olympia.

Charles Aznavour & Liza Minnelli, Live Palais des Congrés, Paris, 1992
Una delle grandi passioni musicali di Aznà è il jazz fin da quando, ragazzino, nella Parigi occupata dai nazisti, con la famiglia che nasconde molti ebrei in casa, esce di sera per ballare lo swing di Django Reinhardt. Non può mancare uno show «americano» dove «costringe» la soubrette losangelina a cantare in francese (splendido il duetto in Les comediens) per ricambiare il favore in un medley di tutti standard.

Barbara, Bobino 1967, 1967
Si tratta del primo autentico live album per Monique Andrée Serf (1930-1997) in arte Barbara (Brodi), di fatto unica vera risposta femminile allo strapotere di compositeurs-auteurs-interprètes maschi. Al contempo incisiva e delicata sia musicalmente sia sugli argomenti trattati, fra i dieci brani (sedici nella ristampa in cd) si distingue Ma plus belle histoire d’amour.

Georges Brassens, À la Villa d’Este, 2001 (1953)
Questo artista trasgressivo (1921-1981), che vanta nella natia Sète un piccolo museo, è celebre per spettacoli ridotti a voce e chitarra: in tal senso emerge dopo mezzo secolo una fortuita registrazione italiana, in cui i difetti tecnici vengono letteralmente surclassati dalla beffarda ironia di un troubadour contemporaneo che sputa versi taglienti in argot: e sono già presenti Hecatombe, Poutain de toi e Le gorille.

Gilbert Bécaud, Bécaud à l’Olympia, 1963
Il tolonese François Gilbert Silly (1927-2001) pubblica questo terzo long playing «olimpico» su un totale di ben diciassette (dal 1953 al 1997, con soli altri tre live in diversi teatri) nel periodo di maggior successo, giacché la canzone Et maintenant di soli due anni prima è l’unica francese a conquistare le folle americane (un po’ come avviene con Volare di Modugno per l’Italia) grazie all’indiscusso potere energico di «Monsieur 100.000 volt».

Jacques Brel, Enregistrement public à l’Olympia 1961, 1962
Per fortuna di questo spettacolo c’è pure – consultabile in rete – la registrazione filmata, a dimostrazione dell’intensità drammatica dell’allora ragazzone belga (1928-1979) che rivoluziona il panorama canoro francofono semplicemente descrivendo la realtà quotidiana, attraverso un complesso minimalismo verbo-musicale: Les bourgeois, Ne me quitte pas e Quand on a que l’amor, da commuovere.

Jean Ferrat, Ferrat en scène, 1991 (2002)
Jean Tenenbaum (1930-2010) per scelta politica – da sempre vicino al Partito comunista francese e unico, fra i cantautori, a dar sostegno nel 1968 agli operai in sciopero – rifiuta i grandi teatri borghesi, ma non la televisione, da cui viene tratto questo disco postumo, il solo dal vivo tra i venti ufficiali pubblicati. Quattordici song dallo show di Michel Drucker con gli arrangiamenti di Alain Goraguer.

Léo Ferré, Récital Léo Ferré à l’Olympia, 1955
Il monegasco Léo Albert Charles Antoine Ferré (1916-1993) al debutto all’Olympia registra il suo primo lp dal vivo (dopo tre in studio) dal titolo originario Récital Léo Ferré enregistré au cours du spectacle de l’Olympia Bruno Coquatrix: pur senza contenere l’intero recital basta una Paris canaille a sottolineare la grandezza del cantautore al contempo sobrio, arrabbiato e romanticheggiante.

Serge Gainsbourg, Théâtre des Capucines, 1963 (2001)
Il primo dei quattro live di un Lucien Ginsburg (1928-1991) strafottente e originalissimo è ancora influenzato dal jazz (ad accompagnarlo due noti solisti quali Elek Bacsik e Michel Gaudry) ed è inedito, ma sulla falsariga dell’accompagnamento swing minimalista del precedente Gainsbourg Confidentiel: La javanaise e Negative Blues i pezzi forti per un artista surreale, pessimista, erotomaniaco.

Juliette Gréco, Juliette Gréco à l’Olympia, 3e série, 1955
Oggi novantaduenne, pur nativa di Montpellier, lega indissolubilmente il proprio nome alla cultura parigina sia nel quartiere Saint-Germain-des-Prés postbellico sia in questo tempio della musica leggera, dove ancora nel 2014 regala uno splendido concerto. Qui al debutto live, dopo sei album in studio, è già la musa degli esistenzialisti. Aprono e chiudono rispettivamente La rue e Si tu t’imagines: indimenticabili.

Yves Montand, Olympia 81, 1982
Ivo Livi (1921-1991) cantante/attore di origini livornesi in quest’ultima apparizione all’Olympia (la prima risale al 1968) interpreta ben trentasei brani, tra ironia e romanticismo, emozione e comunicativa, tra il folklore tricouler e i sempreverdi di Ferré, del poeta Louis Aragon e dell’accoppiata Joseph Kosma e Jacques Prèvert (Les feuilles mortes) con straordinari arrangiamenti jazz di raffinata bellezza.

Claude Nougaro, Une soirée avec Claude Nougaro, 1969
Singolarissima figura (1929-2004) a metà fra il cantautore e il jazzista, inserisce la cultura afroamericana anche nelle liriche come in Armstrong o Le jazz et la java oppure, a mo’ di vocalese, reinventando celebri standard, da St Thomas a A bout de souffle (Take Five). In questa serata, ovviamente all’Olympia, è in compagnia di grandi jazzmen, come Eddy Louis, Bernard Lubat, Roger Guerin, Maurice Vander.

Édith Piaf, Piaf at the Olympia, 1963
Quest’album postumo americano – con il sopratitolo The Late «Little Sparrow» of France, alludendo al soprannome di usignolo di Édith Giovanna Gasson (1915-1963) – è di fatto un’antologia con vari recital (1958-1962), così come il recente doppio vinile At the Paris Olympia (2015) permette di riascoltare le appassionate struggenti performance, tra cui da citare almeno le semi-autobiografiche La foule, Milord, Je ne regrette rien.

Charles Trenet, Paris 1952. Récital de l’Étoile, 1953
In origine pubblicato in due distinti «padelloni», il recital è un compendio ideale del brillante canzoniere di Louis Charles Auguste Claude Trenet (1913-2001), anche se le diciotto melodie presenti (sulle oltre mille da lui composte e interpretate) non rendono a sufficienza l’idea di un personaggio tenero, languido, sentimentale che firma con L’âme des poètes, Douce France, Que rest t-il de nos amours, La mer, autentici capolavori.