Dopo l’illegale impeachment contro Dilma Rousseff, il processo-farsa contro Lula, la sua condanna per corruzione e riciclaggio, il suo arresto e gli innumerevoli abusi giuridici commessi durante la sua detenzione, mancava solo la bocciatura della sua candidatura alla presidenza perché il golpe potesse dirsi pienamente compiuto. E così, a due anni esatti dalla destituzione della presidente democraticamente eletta, i sette giudici del Tribunale supremo elettorale hanno deciso – per 6 voti a 1 – di accogliere le 16 richieste di impugnazione della candidatura di Lula, impedendogli di partecipare alle presidenziali del 7 ottobre prossimo.

LO HANNO DECISO sulla base della legge Ficha Limpa, emanata – ironia del destino – dal governo del Pt nel 2010 per impedire ai condannati in secondo grado di presentarsi alle elezioni, malgrado la stessa legge preveda la sospensione dell’ineleggibilità in presenza di ricorsi «plausibili» (come sono, a detta dei più importanti giuristi del paese, quelli dell’ex presidente). Proprio com’era accaduto nel 2016 nei confronti di circa 145 sindaci eletti sub judice nonostante la condanna in secondo grado (e la cui vittoria era stata successivamente confermata nel 60% dei casi).

Lo hanno deciso, soprattutto, ignorando il pronunciamento del Comitato per i diritti umani delle Nazioni unite che, il 17 agosto, aveva sollecitato ufficialmente le autorità brasiliane a permettere all’ex presidente di concorrere alle elezioni finché «tutti i ricorsi contro la sua condanna non venissero esauriti» e ad adottare «tutte le misure necessarie» per garantire l’esercizio dei suoi diritti politici.

E QUANTO FOSSE VINCOLANTE tale pronunciamento lo aveva chiarito la stessa vicepresidente del Comitato per i diritti umani Sarah Cleveland, spiegando come il Brasile, firmatario del Patto internazionale sui diritti civili e politici, avesse «l’obbligo legale di rispettare tale disposizione». Tanto più dopo l’approvazione da parte del Congresso del Decreto Legislativo 311 del 2009, che ha riconosciuto la giurisdizione dell’organismo Onu e l’obbligatorietà delle sue decisioni.

NIENTE DI TUTTO QUESTO però ha convinto il ministro Luis Roberto Barroso, relatore del caso Lula presso il Tribunale supremo elettorale. Considerato il giudice più vicino alla Rede Globo, Barroso, che ha votato per primo, si è speso in grandi elogi nei confronti della legge Ficha Limpa e ha sostenuto che «le decisioni del Comitato Onu hanno carattere di raccomandazione e non possiedono un effetto vincolante». E ciò malgrado fosse stato proprio lui, in un articolo del 2010, a definire i trattati internazionali sui diritti umani «indiscutibilmente vincolanti dal punto di vista giuridico».

A VOTARE INSIEME A BARROSO sono stati i giudici Jorge Mussi, Og Fernandes, Admar Gonzaga Neto, Tarcísio Vieira Neto e Rosa Weber, mentre l’unico a votare a favore della candidatura di Lula è stato Edson Fachin, che, pur essendo un implacabile avversario dell’ex presidente, ha sostenuto la tesi del carattere obbligatorio della disposizione Onu.

I sette giudici del Tse sono invece tornati sui propri passi rispetto alla decisione iniziale di sopprimere lo spazio elettorale gratuito del Pt finché non avesse provveduto a sostituire la candidatura di Lula: il tribunale ha accolto la richiesta del Partito dei lavoratori di portare avanti la propaganda elettorale con il solo Fernando Haddad, la cui candidatura alla vicepresidenza è stata ratificata dal tribunale.

PER QUANTO IL PT abbia dichiarato in una nota che presenterà tutti i ricorsi necessari «perché siano riconosciuti i diritti politici di Lula, come previsto dalla legge e dai trattati internazionali ratificati dal Brasile», è evidente che il partito dovrà ora lavorare per garantire il massimo travaso possibile di voti dall’ex presidente a Fernando Haddad, già collocato dai sondaggi al secondo posto alle spalle del filo-fascista Jair Bolsonaro.

E CONTRO HADDAD le forze golpiste hanno già affilato le armi: la Procura dello Stato di San Paolo ha infatti chiesto la sua incriminazione per presunte irregolarità amministrative, che l’ex sindaco della città avrebbe commesso nella costruzione di una pista ciclabile di 12 km. Una denuncia, neanche a dirlo, non supportata da alcuna prova, ma esclusivamente basata sulle ormai tristemente note delações premiadas (il rilascio di informazioni in cambio di sconti di pena). Secondo un copione già magistralmente seguito nel caso dell’ex presidente.