Per Gaza quella di ieri è stata un’altra giornata sul filo del rasoio. Dopo i 29 raid aerei israeliani di mercoledì e le decine di razzi lanciati dal Jihad e dai Comitati di resistenza popolare verso i centri abitati del Neghev, ieri la popolazione palestinese ha vissuto nell’ansia dei nuovi attacchi degli F-16 – almeno sette nel sud della Striscia, tre i feriti – mentre si accavallavano annunci e smentite di un accordo di cessate il fuoco trovato con la mediazione egiziana. Israele ieri pomeriggio ha smentito l’esistenza dell’intesa annunciata, via Facebook, da uno dei capi del Jihad, Khaled al Batsh, «raggiunta sulla base dell’accordo di tregua del novembre 2012». I vertici israeliani si sono limitati a far sapere «Se avremo pace, Gaza avrà pace», ribadendo che non accetteranno che le comunità vicino a Gaza continuino a vivere nel pericolo dei lanci di razzi. In serata sono stati lanciati altri razzi e la popolazione palestinese si attendeva un’altra notte di bombardamenti mentre sul versante israeliano sono stati riaperti i rifugi per i civili.

Il governo Netanyahu non mette in conto il raid aereo, che martedì aveva ucciso tre membri del Jihad a sud di Gaza, come motivo scatenante del lancio di decine di razzi da parte dei gruppi armati palestinesi. Secondo Tel Aviv quelle “uccisioni mirate” non sarebbero altro che azioni “preventive” volte ad impedire ai palestinesi di compiere «atti di terrorismo». E’ una versione degli eventi fondata sul “diritto all’autodifesa” garantito però a una sola parte e non riconosciuto anche all’altra, i palestinesi, come dimostrano peraltro le ultime prese di posizione di Stati Uniti ed Unione europea che condannano solo il lancio di razzi. I palestinesi da parte loro accusano il governo israeliano di giocare ad alzare la tensione, allo scopo di colpire indirettamente il presidente dell’Anp Abu Mazen – in un momento decisivo per il fragile negoziato israelo-palestinese, di fatto fermo da mesi -, accusandolo di non avere il controllo della situazione e di non condannare il “terrorismo”. Il premier Netanyahu ieri ha rimproverato ad Abu Mazen di aver condannato i raid aerei israeliani e non i lanci di razzi da Gaza. E un ministro, Yaacov Perri (un ex capo del servizio di sicurezza Shin Bet), ha ventilato l’ipotesi che in caso di interruzione o fallimento delle trattative, Israele non sarà tenuto a liberare l’ultimo gruppo di una trentina di prigionieri palestinesi che si era impegnato a scarcerare lo scorso luglio all’avvio dei colloqui con i palestinesi.

Impegnato ad impedire il riavvicinamento tra l’Iran e l’Occidente e la firma dell’accordo sul nucleare iraniano, il governo Netanyahu vede nella recente ripresa a Gaza delle attività militari del Jihad Islami, “manovre” di Tehran per tenere alta la tensione ai confini di Israele. In casa palestinese si fanno ben altre considerazioni su quanto accade e si muove a Gaza in questo periodo. Il dato più importante di quest’ultima escalation – subito dopo le sofferenze della popolazione civile per le conseguenze della crisi tra l’Egitto e Hamas (a cominciare dalla chiusura perenne del valico di Rafah) – è la posizione di basso profilo mantenuta sino ad oggi dal movimento islamico. Nel novembre 2012 Hamas invece si impegnò in un duro confronto armato con Israele dal quale, grazie anche al sostegno del presidente egiziano deposto Mohammed Morsi, emerse proclamandosi “vincitore”. Ora fa di tutto per non lasciarsi coinvolgere in una escalation militare che potrebbe ulteriormente indebolire la sua posizione, ancora più fragile dopo la decisione egiziana di proclamare il movimento islamico palestinese “gruppo terroristico” perchè alleato dei Fratelli Musulmani messi fuorilegge.

I leader di Hamas si muovono con cautela, fanno il possibile per contenere l’attivismo delle formazioni armate islamiche minori, a cominciare dai gruppi salafiti-qaedisti che ricevono crescenti finanziamenti dal Golfo. Il Cairo inoltre preme affinchè il premier islamico Ismail Haniyeh ceda il controllo del valico di Rafah alla guardia presidenziale dell’Anp, ripristinando la situazione precedente al giugno 2007 (anno in cui Hamas prese il potere a Gaza), quando la frontiera tra la Striscia e l’Egitto apriva sotto la supervisione di un contingente di “monitors” dell’Unione europea (Eubam) e, soprattutto, con il controllo a distanza di Israele.