Chi non concorda sul principio che per accedere a un impiego pubblico tramite un concorso – cioè la valutazione di una commissione competente – non debba valere il criterio del merito nella scelta dei vincitori? Che si tratti dell’accesso alla carica di direttore generale di un ministero o di semplice impiegato comunale, nessuno troverebbe giusto e accettabile che a essere premiati fossero i meglio raccomandati (da un ministro o dal parroco) o i più simpatici e fisicamente avvenenti.

L’OVVIO CRITERIO di giustizia, alla base dell’efficienza ordinaria di ogni amministrazione di uno stato di diritto, nasconde la più potente macchina di esclusione sociale su cui si regge la società capitalistica. I candidati che arrivano a sostenere i concorsi costituiscono la punta di un iceberg la cui base sommersa è affollata da una vasta platea di individui che per nascita, ambiente familiare, percorso scolastico, destino sociale non possono neppure aspirare a presentarsi a un concorso. Il classismo delle società contemporanee opera ab ovo feroci selezioni nelle possibilità di successo dei cittadini, che vengono a posteriori nascoste dalla relativa neutralità meritocratica del concorso pubblico.

QUEST’ULTIMO – passaggio finale di un lungo percorso – non fa che sancire l’ingiustizia sociale originaria con cui la società classista ha già escluso la massa degli immeritevoli, cioè dei subalterni, degli emarginati, dei più poveri, di chi non ha potuto studiare. Solo considerando le disparità enormi dei «punti di partenza» che dividono ab inizio i singoli individui, il concetto di meritocrazia appare per quello che è: uno dei più potenti dispositivi di inganno ideologico con cui il potere capitalistico nasconde i fondamenti di emarginazione e ingiustizia su cui si regge. Interviene sul problema (ampiamente discusso in altri paesi) Salvatore Cingari, con La meritocrazia (Ediesse, pp. 221, euro 15), un agile saggio che non solo ricostruisce le origini storiche del termine e il dibattito internazionale anche recente, ma soprattutto illustra con brillante acribia il ruolo di concetto egemonico giocato da questo termine nel processo di devastazione culturale operato dell’ideologia neoliberista negli ultimi vent’anni.
EGLI NON SOLO RICORDA, sulla scorta di qualche grande pensatore americano, come John Rawls o ricorrendo agli studi sulla meritocrazia di Michael Young come le «uguaglianze delle opportunità», tanto vantate dalla sociologia americana e dai suoi superficiali cantori europei, siano in realtà opportunità offerte ad alcuni pochi di sopravanzare i molti meno dotati in quanto meno fortunati. Le stesse componenti fondamentali del merito, vale a dire lo sforzo e il talento, sono frutto dell’ambiente familiare e sociale o sono doni della natura e come tali immeritati.
MA LA PARTE PIÙ ORIGINALE del contributo di Cingari si condensa nella disamina di come il criterio di meritocrazia sia diventato, soprattutto in Italia, uno strumento di surrogazione dell’analisi sociale e una forma ingannevole di camuffamento delle gerarchie di classe.
L’esaltazione dell’individuo più dotato, più capace, dunque il più utile all’impresa capitalistica e il più efficiente nel far funzionare la macchina pubblica, crea un immaginario valoriale che fa apparire i meno dotati come colpevoli della loro minorità, responsabili delle loro sconfitte, della loro emarginazione.

AL TEMPO STESSO questa vera e propria concezione del mondo fa si che tutti i deficit della società, il mal funzionamento dei servizi, il disagio dei ceti poveri, gli scacchi delle imprese o i fallimenti dell’operato pubblico, siano spiegati con criteri moralistici: la mancanza di competenza, di merito, da parte dei gestori della cosa pubblica. Il fallimento del mercato, quindi la perdita di competitività del sistema, nella gara intercapitalistica, va cercata nella insufficiente applicazione della meritocrazia. E qui l’autore coglie un nesso che val la pena illustrare con le sue parole.
Secondo Cingari la meritocrazia diventa l’anello di congiunzione fra ideologia neoliberista e retorica populistica: «l’idea, cioè, che il crescente malessere sociale sia frutto di un mancato rispetto delle regole in una visione della società come gioco competitivo.

LA QUESTIONE MORALE tende cosi – in una prospettiva che diventa interclassista – a sovrapporsi a quella sociale, imputando alla corruzione, al favoritismo, al privilegio neofeudale di imprese e istituzioni pubbliche o partitico-sindacali, la responsabilità dell’accrescersi delle disuguaglianze, dell’impoverimento del ceto medio, della diminuzione delle opportunità di lavoro».
Il discorso sul merito occulta così presso i ceti popolari ogni spiegazione storica e di classe delle disuguaglianze, dell’emarginazione e dello sfruttamento subito, sublimandola sul piano del costume, affondandola nel sopramondo dei sempiterni e immodificabili egoismi umani e così disinnescando ogni volontà di rivolta e conflitto.