Da tre giorni i canali all-news sono diventati emittenti 24 ore della sconfitta, uno smacco cocente aggravato dal disonore dell’abbandono dei civili. Una nuova generazione di Americani familiarizza con l’iconografia terribile della rotta – quelle degli afghani appesi ai carrelli dei C130 che cadono nel vuoto peggio dei pur atroci precedenti abbandoni di Saigon, di Phnom Penh, di Mosul – ognuno una lapide nella egemonia di una superpotenza sempre meno potente.

A un mese dal ventennale dell’ 11 settembre, le promesse di George Bush di farla pagare cara ai mandanti degli attentati risuonano oggi in tutta la loro vacua e colpevole retorica. E dopo 240 mila vittime civili (e 2400 militari americani), la caduta di Kabul chiude l’avventura afghana nel peggiore dei modi e con un duro colpo inferto all’immagine – e l’autostima – della nazione che l’ha messa in moto e per vent’anni l’ha poi quasi completamente rimossa.

Gli eventi di queste ore sono il terminale di 20 anni di decisioni sbagliate. Come al solito gli Americani – ignari dell’operato del loro governo nel mondo – scoprono oggi che la falsa narrazione della guerra al terrorismo era una trappola senza uscita, che poneva le alternative politicamente insostenibili di un ritiro “disfattista” o di una guerra senza fine. C’è posto oggi quindi anche per l’editoriale dell’Atlantic che nella giostra delle responsabilità propone di distribuirne la giusta parte anche all’ignavo popolo americano pronto a tifare per gli slogan patriottici di turno sulle guerre giuste, poi altrettanto pronto a rimuovere le stragi compiute in loro nome. «In poche settimane, come ogni cosa in una nazione che non sa prestare attenzione che agli spot del fast food – scrive Tom Nichols – anche questo sarà dimenticato».

Per alcuni qui sarà più difficile che per altri. Molti reduci hanno ricevuto messaggi e telefonate di addio da ex commilitoni e traduttori afgani a cui avevano fatto promesse, in retrospettiva, scritte sulla carta straccia. Si ritrovano oggi sulle spalle il peso morale scaricato dal loro governo. È destinato ad aggiungersi alle cicatrici psichiche della gigantesca popolazione di reduci di un paese guerrafondaio. Ricordiamolo: le strade delle città americane sono ancora piene di senzatetto reduci del Vietnam.

Negli ultimi mesi le amministrazioni Trump e Biden hanno intenzionalmente rallentato le richieste di asilo di decine di migliaia di persone. Mentre vengono respinti i profughi disperati dell’aeroporto, sul ponte aereo della US Army sono stati evacuati i cani dei reparti cinefili.

In sei mesi Biden ha chiaramente gestito nel peggiore dei modi l’accordo siglato da Trump a gennaio del 2020. «La politica di Biden – ha scritto il notista David Frum – è sostanzialmente quella di Trump, con qualche bugia in meno». Non è insensato ritenere che il ritiro fosse ormai l’unica strada percorribile. Di certo il presidente vorrebbe rimangiarsi le fatali parole sulla «Saigon che in nessun caso si ripeterà». La caduta di Kabul è figlia di 20 anni di sbagli ma il peso ricadrà su questo presidente, quello che aveva esordito con «l’America è di nuovo alleato affidabile».

Ieri sera Biden ha parlato alla nazione per dare la sua risposta, ammettendo la sorpresa per la rapidità degli eventi precipitati, ma ribadendo con forza la propria decisione : «Quante vite americane quanti filari di lapidi al cimitero vale questa guerra? Per me la risposta è chiara: non ripeterò gli sbagli che abbiamo fatto in passato. Ho imparato – ha detto il presidente che era senatore ai tempi del Vietnam – che non esiste mai un buon momento per ritirare le truppe». Biden ha anche riconosciuto che «le immagini che giungono oggi da Kabul sono devastanti soprattutto per quelli di noi che hanno combattuto a fianco di quella gente». A questo riguardo ha dato assicurazioni generali sugli sforzi delle truppe americane per imporre ordine all’aeroporto e assicurare la continuazione dell’evacuazione di alleati e civili, anche se non è chiaro come questo possa effettivamente accadere.

Rimbalza oggi in Usa una domanda senza risposta: era possibile gestire meglio una guerra e un’occupazione sbagliate? E forse ancora più importante: Kabul sarà pietra tombale delle aspirazioni geopolitiche di una nazione sempre più dissociata dalla narrazione del “faro di libertà”? Di certo fa i conti con uno scacchiere dagli equilibri radicalmente modificati. E nell’America odierna in balia di forti pulsioni nazional-populiste c’è un forte ritorno neo isolazionista.

È lecito chiedersi come fanno alcuni anche in Usa se in Afghanistan stia per nascere il secolo cinese. È quasi certo che all’aeroporto di Kabul sia stato definitivamente seppellito quello Americano.