Un classico tema del romanzo statunitense moderno, e soprattutto di quanto a vario titolo rientra nel genere del Bildungsroman, è il confronto (inevitabile e non di rado drammatico) tra la vecchia e la nuova America. Un faccia a faccia che si esaurisce spesso su basi sociali e geografiche piuttosto che nel più classico e intuitivo scontro tra generazioni. Chi ricorda la sotterranea ma fondamentale contrapposizione tra New England e Midwest messa in scena da Il Grande Gatsby, nel quale si consuma il rapporto burrascoso tra l’aristocrazia capitalistica americana e l’intraprendenza del self-made man, ne apprezzerà l’eco nell’ultimo romanzo di Wallace Stegner, Verso un sicuro approdo (traduzione di Maurizia Balmelli, Bompiani, pp. 396, euro  22,00). Qui i tempi cambiano, e dallo sfarzoso ed eccessivo contesto della età del Jazz ci si trasferisce nell’epoca ben più grigia e dimessa della Grande depressione. Resta però invariata la dialettica interpersonale che esemplifica il sofferto processo di auto-rappresentazione delle numerose anime che compongono il complesso mosaico della società statunitense.

Un contemporaneo De Amicitia
Al centro del romanzo, il sodalizio di cui sono protagoniste due coppie, i Morgan e i Lang: i primi, arrivati in Wisconsin dal New Mexico, portano con sé l’idealismo e l’autodeterminazione della frontiera, descritti dall’autore nell’incontro/scontro con l’alta società yankee che i secondi, ricchissimi ereditieri della borghesia intellettuale del New England, incarnano.

I rapporti che Stegner indaga sono l’oggetto di una misurata e approfondita riflessione filosofica, una sorta di contemporaneo De Amicitia, opera non a caso citata nel testo. In un’ideale riproposizione del processo storico attraverso il quale gli homines novi statunitensi, a corto di terre da esplorare a ovest, tornarono a volgersi verso le radici della nazione scoprendo di esserne tanto attratti quanto separati da differenze inconciliabili, il romanzo, nella descrizione dei legami sempre più stretti dei quattro protagonisti, delinea anche una simbolica ricostruzione dell’America piegata dalla crisi. Un processo, com’è lecito aspettarsi, non privo di accidenti.

Stegner, che al West ha dedicato molta della sua riflessione letteraria, si cala nei panni semi-autobiografici di Larry Morgan, appassionato ma disincantato narratore dei complessi legami di amicizia e di amore coniugale a cui queste pagine danno voce. Illuminante la citazione dell’autore riportata in quarta di copertina: «esiste una via di mezzo tra l’assoluta libertà, che equivale al caos, e l’ordine assoluto, che equivale all’immobilità. Ho cercato di trovarla scrivendo questo libro».

Equilibrio nella lingua
L’operazione è elegantemente riuscita: Verso un sicuro approdo si legge come il frutto di un equilibrio miracoloso e fragilissimo fin nell’utilizzo del sobrio linguaggio dell’anziano narratore che guarda nostalgicamente ma senza sentimentalismo alla propria giovinezza. Oltre alle tensioni sociali, è il tempo – nemico principale di ogni idillio – a costituire il campo di scrutinio dell’autore: da questo punto di vista, il romanzo è, almeno metaforicamente, espressione del pastoralismo statunitense, l’elegia dolceamara per un’epoca felice inghiottita dal flusso inarrestabile della storia. Un po’ come in Pastorale Americana di Philip Roth, al quale la struttura del romanzo si accosta senza però mutuarne il cinismo, l’Eden di un passato rivissuto come un sogno va a infrangersi contro la dura realtà del presente. Ma, lontano dalla tentazione di struggimenti lirici, Stegner avverte: «Non c’è Eden che tenga senza serpente».

Il riferimento è al carattere tirannico e capriccioso di Charity Lang, donna forte cresciuta in un vero e proprio matriarcato, la cui inflessibilità compromette il rapporto con il fragile marito Sid e con la più conciliante coppia dei Morgan, fino al doloroso, splendido epilogo, che incornicia la vicenda e costituisce senza dubbio la parte migliore del romanzo.

L’Arcadia memoriale di Stegner avrà pure il suo serpente (attualizzato nel logorio delle tensioni personali e nella insopportabile prospettiva della morte, che cresce via via negli anni di apprendistato alla vita delle due coppie), ma l’onestà con cui il romanzo indaga la vita dei protagonisti ne costituisce la forza. Mantenendosi perlopiù lontano dagli stereotipi nel mostrare la difficoltà per ciascuno di essi di raggiungere finalmente un «sicuro approdo», l’autore riflette soprattutto su tutto ciò che è andato perso durante il tragitto.

Non è un caso che il titolo del romanzo sia mediato da una poesia di Robert Frost, I Could give all to Time, altra opera dedicata al lavorio incessante degli anni, nella quale si legge: «Potrei dare ogni cosa al Tempo – tranne/Ciò che ho trattenuto per me». Quel che resiste agli attacchi del tempo, in questo caso, è l’amicizia di una vita, imperfetta ma imprescindibile e, soprattutto, la scrittura stessa: un monumento a queste donne e questi uomini assolutamente straordinari nella loro quotidiana normalità, che chiosano gli avvenimenti di cui sono protagonisti attingendo a opere di Swinburne, Coleridge, Wordsworth, Yeats, e Faulkner, dal quale prendono un motto che funziona come epigrafe alla perseveranza dello spirito umano oltre a prestarsi da summa della storia che Stegner racconta: «ci hanno fatto fuori, ma non ci hanno liquidato».

Tutto il romanzo, con il suo contrappunto di voci autoriali che si mescolano a quella del narratore, è in fondo un tributo alla grande letteratura e al dialogo di questa con la vita, costituito com’è da una fitta tessitura di rimandi, a suggellare la capacità della scrittura di conferire dignità (e offrire immortalità) a ciascuna esistenza spesa nella ricerca di un equilibrio tra gli imprevisti del mondo.