Nel giorno più lungo delle riforme costituzionali in commissione alla camera, la minoranza del Pd ha il tempo di cambiare più volte strategia. Prima la minaccia del muro contro muro che non avrebbe consentito al governo di andare avanti, poi l’Aventino – «sostituiteci tutti» – poi una semplice astensione e infine una rassegnata partecipazione, in qualche caso per incassare limitate modifiche al testo difeso dalla ministra Boschi. Sempre, qualsiasi fosse l’atteggiamento adottato, la minoranza si è divisa e la dozzina di esponenti delle correnti non renziane (bersaniani, lettiani, Bindi) non è riuscita a fare blocco. È così ieri sono stati approvati alcuni emendamenti dei relatori Fiano (Pd) e Sisto (Forza italia), custodi del patto del Nazareno, i primi dopo che in dieci giorni di discussione la commissione affari costituzionali aveva segnato non più di dieci micro modifiche alla riforma proposta e imposta da palazzo Chigi.

Le novità riguardano il procedimento legislativo, che se possibile si complica. Le leggi saranno divise in quattro categorie: quelle sulle quali il senato avrà la stessa competenza della camera (leggi costituzionali e poche altre); leggi alle quali il senato potrà proporre modifiche (entro 30 giorni) che la camera potrà ignorare confermando le sue decisioni; leggi comprese in un elenco di materie (Roma capitale, governo del territorio, protezione civile, atti normativi dell’Ue, finanza locale…) alle quali il senato potrà proporre modifiche ma solo a maggioranza assoluta, modifiche che la camera potrà ignorare ma votando a sua volta a maggioranza assoluta; leggi di bilancio che il senato potrà proporre di modificare solo col voto dei due terzi dei senatori, mentre alla camera per ignorare le modifiche basterà sempre la maggioranza assoluta. Dal bicameralismo paritario al bicameralismo confuso: a mettere ordine in questo caos, decidendo per ogni legge l’iter corretto, dovranno essere i presidenti di senato e camera – sul punto la riforma di Renzi è molto simile a quella di Calderoli bocciata dal referendum nel 2006.

Cambia anche l’ultimo comma dell’articolo 12 della riforma, quello che ha regalato al governo un altro strumento per imbrigliare il parlamento – oltre alla fiducia e ai decreti -, il cosiddetto «voto bloccato». Che bloccato non sarà più, nel senso che trascorsi 75 giorni dalla presentazione di un disegno di legge che il governo giudica «essenziale» (oppure 70 giorni, oppure 60, in un trionfo di subordinate) la camera dovrà obbligatoriamente votarlo, ma (ecco la concessione) anche nel testo eventualmente modificato dalle commissioni. Tutte le minoranza chiedevano di cancellare completamente questo nuovo istituto che amplifica il controllo dell’esecutivo sul potere legislativo. Ma la minoranza Pd ha di fatto accettato la mediazione, limitandosi a non partecipare al voto e sperando nell’impegno dei relatori di discuterne ancora in aula.

Promessa per promessa, si potrebbe riaprire in aula anche il caso dell’articolo 13, che al secondo comma ha introdotto la verifica preventiva delle leggi elettorali, quando un terzo dei deputati chiede alla Corte costituzionale di valutarne la legittimità prima della promulgazione. Le minoranze proponevano di rendere automatica questa verifica o almeno di abbassare il quorum previsto per la richiesta, a un quarto o un quinto dei deputati. Ma soprattutto chiedevano di sottoporre alla verifica della Consulta anche la nuova legge elettorale, l’Italicum che sta andando avanti al senato e che verosimilmente sarà approvato prima della revisione costituzionale. Ma Renzi non vuole, con questo ammettendo i limiti dell’Italicum e preparando un nuovo «caso Porcellum». E così nessuno degli emendamenti viene accolto e per questo leghisti e grillini abbandonano l’aula della commissione alle otto di sera. La minoranza Pd che si era attestata su questa trincea – viste tutte le critiche e le preoccupazioni che i bersaniani hanno per la riforma elettorale – anche in questo caso sceglie di rinviare lo scontro all’aula, dove i rapporti di forza sono in favore dei renziani.
Nella tarda serata, troppo tarda per gli orari di chiusura del manifesto, la commissione è tornata sullo stesso punto, discutendo le disposizioni finali della riforma. L’ultima occasione per verificare l’impegno dei dissidenti del Pd, in maggioranza in commissione eppure disposti a chiedere di essere sostituiti per tenere insieme i problemi di coscienza con quelli di un esecutivo che in pratica ha messo la fiducia sulla modifica della Costituzione.

Alla fine della lunga giornata, sì a un quorum più altro per l’elezione del capo dello stato e corsa per chiudere ed evitare la convocazione domenicale. Nella riforma tornano anche i senatori a vita che la minoranza Pd nel suo unico strappo aveva cancellato. Tutto rispettando la tabella di marcia voluta da Renzi, malgrado il tempo perso per dare per dare l’impressione di cercare la mediazione all’interno del Pd, tempo in definitiva sottratto al dibattito. L’aula aspetta la riforma costituzionale martedì, in mezzo solo il concerto di natale.