Vent’anni dalla morte di Carmelo Bene… sciocchezze. Cosa sono vent’anni, specialmente per uno che asseriva di non essere mai nato? Carmelo Bene veglia sempre su di noi, ci impedisce di apprezzare il teatro come giaculatoria, come ripetizione accademica di testi predisposti; ci impedisce di credere nel cosiddetto cinema d’autore, il cui emblema è troppo spesso la noia. Ci impedisce di fare poesia da fanciullino, come se il poeta non fosse filosofo.

Ci impedisce di credere nei filosofi che non siano anche poeti. Leggiamo i suoi romanzi come macchine sceniche, le sue macchine sceniche come romanzi.

CB non sopportava il patetico, in ogni campo, e per questo, sul piano della poesia, se la prendeva con Pascoli, se la prendeva col Pasolini «pascoliano» e, come ho detto, con tutti i fanciullini dalla lacrima facile. Non sopportava neppure il tragico, non solo quando è, come di solito, campo d’ostentazione retorica, ma perfino quando è vissuto/sofferto sul proprio corpo in quanto corpo-di-dolore. La sua, semmai, è la tragedia della maldestrezza, di chi cerca disperatamente di farsi male (per esempio, buttandosi dalle finestre in Nostra Signora dei Turchi).

Per questo si sentiva vicino ad Artaud, ma anche infinitamente lontano, anche per quello che riguardava il ripudio del cinema. Artaud ripudiava il cinema in quanto dispositivo tecnologico di riproduzione meccanica, votato alla mortificazione d’ogni slancio corporeo e d’ogni autenticità; Bene, invece, lo ripudia in quanto sistema produttivo, ma intuisce subito, per esempio, le enormi possibilità che si aprono alla sperimentazione audio-tele-visiva. Aspira a farsi corpo-macchina, corpo inorganico, corpo metallico, corpo-corazza catafratta senza nessuno all’interno, elmo vuoto, corpo assente dalla scena, sopratutto dalla scena tragica o semplicemente seriosa; ma questo non significa certo consacrarsi allo sberleffo comico accattivante/ammiccante, al comico che consola, che fa ridere o sorridere. La comicità di Bene, se proprio vogliamo chiamarla così, è iconoclastia pura, forza irridente, distruttrice di valori. Bene non è Artaud: semmai somiglia all’Eliogabalo di Artaud.

Quando lo chiamavano attore, magari lodandolo come tale, giustamente CB si offendeva, interpretandola come una sottovalutazione dei suoi tanti talenti. Eppure credo che attore lo fosse, nel senso pieno della parola. Tutto era arte, nell’attore CB, sul palcoscenico, sullo schermo cinematografico, su quello televisivo, purché si spogli la parola (arte) da ogni alone di retorica. Dunque arte in che senso? Nel senso dell’arte come Oratorio, secondo quanto scrive Manganaro nell’ultimo libro a lui dedicato.

Arte come regno della contaminazione, si potrebbe anche dire. Non ci sarebbe l’Ulisse di Joyce senza l’Odissea. Non ci sarebbe Salò-Sade di Paolini senza Sade, ma anche senza Vecchiali o senza i gironi danteschi. Non parliamo della continua pratica di contaminazione messa in opera da Godard (anche se i due, Godard e CB, non si amavano troppo). Non ci sarebbe l’Amleto di CB senza Laforgue. Non ci sarebbe Lorenzaccio senza de Musset e Benedetto Varchi o senza i rumori mimati da Mauro Contini. La contaminazione somiglia alla critica, e al tempo stesso è qualcosa di diverso. È una base di lancio, anzi, di rilancio. Schizza sempre oltre.

Ma, con Manganaro, considero CB soprattutto un musicista, qualcuno che non esprime un concetto se non sotto forma di concerto. Deleuze e Guattari hanno parlato del Ritornello come forma filosofica, e Giulia Raciti, in un suo libro recente edito da Mimesis («Carmelo Bene. Il ritornello crudele dell’immagine»), ha identificato nelle immagini del suo cinema quello che ha chiamato un «ritornello crudele».

Il ritornello è crudele, e anche segreto. Si tratta di immagini pericolose se si guardano troppo a lungo, come quelle di Capricci, confezionate con colori avvelenati. In esse c’è tuttavia una musica (segreta): immagini che evocano ritmi, immagini collegate al fiato e alla phonè, alla voce come strumento filosofico di seduzione e incanto. Immagini che (ri)suonano, in qualche modo collegate anche all’amore di CB per Verdi e il melodramma italiano. Concerti, concetti, arie, ritornelli – così è possibile affrontare senza timore anche il discorso sul Nulla, sul Tutto che è Nulla, su Tutto il Nulla. Non si deve tremare, con Carmelo, neppure di fronte al Nulla.