Lo incontriamo in partenza, la valgia da chiudere e poi via all’areoporto, destinazione Il Cairo dove vive. «Voglio essere lì sabato prossimo (il 30) per la manifestazione che chiederà le dimissioni di Morsi» dice Yousri Nasrallah di cui il romano Med Film Fest – che chiude oggi – ha presentato Apres la Bataille, una storia d’amore e di lotta nei giorni della Primavera araba, e la prima riflessione approfondita sulla fine del regime di Mubarak e sullo svolgimento fin qui della rivoluzione egiziana. Nasrallah, allievo prediletto del grande maestro del cinema egiziano Yousef Chahine, spiega con lucidità, ma senza pessimismo, il terreno della lotta in Egitto, la realtà stratificata e rischiosa del paese, innestando melodramma a immagini di repertorio, con uno sguardo che va al di là dell’attuale. Non reportage, o banale celebrazione ma scommessa e tentativo di afferrare il conflitto, come è d’abitudine nel cinema di questo regista che si è confrontato con questioni complesse, dal velo alla Nakba palestinese, sempre contro l’iconografia strumentale delle ideologie. «La rivoluzione non si fa in un giorno, ciò che era nascosto, corruzione, miseria, islamisti fanatici è venuto fuori».
La storia segue due personaggi, Mahmoud, che è uno dei ragazzi a cavallo scagliati dal regime contro i rivoluzionari in Piazza Tahrir, e Reena, militante borghese piena di certezze. Incontro impossibile, naturalmente, di una distanza in cui si configurano le questioni aperte di democrazia e responsabilità politica.

Che effetto ti fa rivedere il tuo film a un anno di distanza dalla presentazione al festival di Cannes, tempo che coincide anche con un anno di tensioni e violenti scontri sociali e politici nell’Egitto di Morsi.

Il mio non è un film sulla disillusione, un sentimento molto diffuso tra chi vede nella situazione politica attuale il fallimento della rivoluzione. Sono partito invece dal bisogno di interrogare le difficoltà che ci sono, e che vanno affrontate quando si deve ricostruire un paese. Perché questo è quanto è accaduto da noi come in altri luoghi. Perciò t

utto quanto viene evocato nei discorsi sulla democrazia, sull’indipendenza e la libertà delle donne che sono aggredite se girano in strada, sul fatto che la presenza dell’esercito porta al rischio di una nuova dittatura, il lato «politico», diciamo così, del film, è sempre attuale. Il lato di finzione vale invece di per sé: se funziona funziona, appassiona, commuove; e rimanda a una cifra poetica e narrativa che mi appartiene, il melodramma, che diventa comunque politico. È il mio modo di fare cinema. A me interessa la discussione, non mi appartengono i film di propaganda o di glorificazione. Credo che il cinema deve rivelare il conflitto, i paradossi, quanto ancora non vediamo o che non si vuole vedere. In Egitto il mio film ha acceso discussioni mai neutre. C’è chi lo ama, chi lo detesta, ma il dibattito è stato sempre politico.

Dunque è stato distribuito in sala?

Sì, e come dicevo ha scatenato reazioni sempre molto violente. Hanno detto che insulta la rivoluzione, che ne sfigura la bellezza, che è stato fatto troppo presto e troppo vicino ai fatti di cui parla.Ma è esattamente questo che intendo quando dico che a ogni film cerco di interrogare la realtà.

Il protagonista di «Après la bataille», Mahmoud, è uno dei «cavalieri di Piazza Tahrir», che il 2 febbraio del 2011, gli agenti del regime di Mubarak hanno usato strumentalmente contro i rivoluzionari. Cosa ti ha colpito in questa storia?

In realtà stavo preparando un film diverso, poi è cominciata la rivoluzione e la mia testa era altrove. Cosa fare quando la realtà stessa diviene un film? Dovevo fare un film a mia volta che avesse un legame con quanto stava accadendo fuori. E partire da una piccola storia per me è il solo modo per riuscire a interagire con la Storia nel suo farsi. Aspettavamo tutti di vedere cosa sarebbe successo, come si poteva andare avanti, che avremmo dovuto fare ma intanto da subito, al di là dell’euforia, è stata chiara una cosa: la nostra era ed è una società di scissioni di classe terribili, che una rivoluzione da sola non basta a risolvere. D’altra parte i rapporti tra classi diverse, anche amorosi, attraversano tutti i miei film.

Lo stesso accade in «A proposito dei ragazzi delle ragazze e del velo», dove affronti la questione del velo contro i giudizi univoci

Forse è tra i miei il film il più vicino a questo, anche perché è stato girato nella stessa regione e con molte persone che apparivano lì.

Mahmoud incontra Reem, una giovane donna laica e rivoluzionaria.

Già, e di fronte a lui che è poverissimo, umiliato, senza lavoro, lei appare persino un po’ naif con le sue convinzioni nette … Anche per questo ho voluto costruire intorno a loro una dimensione corale, con molti personaggi che esprimono le molte anime dell’Egitto oggi. Io amo tutti i miei personaggi, anche quando appaiono distanti da me, e cerco per questo di farli conoscere allo spettatore. Ciò che si chiede su di loro deve riguardare anche se stesso. Credo che la rappresentazione della realtà sia molto più sfumata e stratificata, non si puà racchiudere nel binomio «buoni»/«cattivi», «giusto»/«sbagliato». Fare un film per me è anche un processo liberatorio, nel corso del quale però mi interessa porre domande più che dare risposte accativanti.

Cosa pensi che possa accadere nei prossimi giorni?

Stiamo tutti aspettando la grande manifestazione di sabato prossimo (30 giugno) che chiederà a Morsi di dimettersi. Sono state raccolte milioni di firme contro di lui, ma anche in questo caso la realtà è ambigua, i suoi sostenitori sono forti e pericolosi. La società egiziana però non si ferma, questo regime è intollerabile e anche stupido. Se pensi che al governo delal città di Luxor è stato messo un ex-terrorista (Adel Mohamed el Khayat, ndr), che ha partecipato agli attentati contro i turisti proprio lì (nel 97, ndr). Però i cittadini non gli hanno permesso neppure di entrare in città, c’è stata una resistenza forte che sembra riuscita. Ti faccio un altro esempio: la produzione culturale. Morsi e il suo governo non finanziano più nulla, c’è molta censura, l’industria cinematografica è praticamente ferma, i finanziamenti pubblici non esistono. Intanto però sta crescendo una nuova generazione di registi indipendenti, che si finanziano i film in modi diversi, approfittando anche delle opportunità date dalle nuove tecnologie. Sono produzioni senza star e a low budget ma di livello altissimo, come Coming Forth By Day di Hala Lotfy, una cineasta straordinaria.

Tu stai pensando a qualcosa?

No, per ora mi limito a fare sport.