In place de la République, il tentativo delle prime notti del movimento Nuit Debout di restare sul posto e di organizzare un accampamento è stato gelato immediatamente dalla polizia, che ha smantellato le installazioni precarie con la giustificazione che la Francia vive in stato d’emergenza, dagli attentati del 13 novembre. Nella piazza parigina, il campo sarebbe stato «contestatore». È questa una delle sei categorie in cui sono stati divisi gli accampamenti esistenti nel mondo – in crescita in tutto il pianeta – nell’interessante mostra Habiter le campement, alla Cité de l’Architecture et du Patrimoine, al Trocadéro (visitabile fino al 29 agosto). La mostra, curata dall’architetta Fiona Meadows con il contributo di vari ricercatori, parte dalla constatazione che un modo di abitare precario, minimale e revocabile è ormai diffuso, sotto varie categorie: i nomadi, i viaggiatori, i profughi, gli esiliati, i conquistatori e i contestatori. Nell’epoca delle archistar, la rassegna invita a riflettere su questo «grado zero» dell’habitat, sulle «zone ai margini» che destabilizzano le identità collettive e individuali. «A lungo considerati come caratteristici dei paesi poveri e di gruppi etnici specifici – spiega il sociologo Marc Bernadot – gli accampamenti sono riemersi dalla notte dei tempi nomadi nell’universo globalizzato contemporaneo dei paesi del sud e dei paesi occidentali, sia come habitat banalizzato di masse povere in movimento sia come movimento social-spaziale che contesta e sovverte gli ordini sociali, economici, politici e culturali».

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Con la crisi economica e la svolta neo-liberista, l’accampamento si è «ripoliticizzato» uscendo dall’ombra, aggiunge Bernadot. E al tempo stesso si è anche trasformato, coinvolge il turismo, le missioni scientifiche, e per quanto riguarda la sua forma «industriale» dedicata ai profughi, è strumento di oppressione e di controllo.
Dalla preistoria alla «giungla» di Calais, il «riparo», cioè l’«architettura», è costruito con quello che si trova sul posto. L’accampamento, l’urbanistica, è «una scorciatoia dell’universo», secondo la definizione di Marcel Mauss e Emile Durkheim nel 1903. Tutte le sue forme ci parlano di un «eccesso di presente», che può trasformarsi in un «presente che dura», sottolinea l’antropologo Michel Agier.
I primi accampamenti sono stati militari, come indica l’etimologia latina del termine (campus). Nell’immaginario, il vero campo è quello nomade, dal più tradizionale al più moderno: tende, capanne, yourte, roulottes, camping ecc., c’è tutto un sapere attorno a un habitat leggero e smontabile, ormai diventato multiculturale. I nomadi sono oggi spesso costretti a sedentarizzarsi (come succede nelle riserve indiane o per gli aborigeni, i tentativi di insediare i Rom in zone dedicate etc). Il nomadismo riguarda anche gli ambulanti, i lavoratori stagionali, i circhi, i travellers poveri del mondo anglosassone, i tecnici del nucleare o gli operai edili. La seconda categoria sono i viaggiatori: turisti, pellegrini, partecipanti a festival, tutti adepti di quello che l’antropologa Saskia Cousin chiama «l’otium mobile» permeato di romanticismo.

I naufraghi delle giungle urbane, i profughi e gli esiliati sono agli antipodi di chi è nomade per scelta. L’Alto Commissariato Onu (Hcr) per i rifugiati calcola che oggi ci siano 50 milioni di profughi nel mondo, di cui 20 per ragioni climatiche. Circa 6 milioni di persone vivono nei 450 campi amministrati dall’Hcr in Africa, America latina, Asia, Medioriente, a cui vanno aggiunti quelli palestinesi gestiti dall’Unwra. Il più grande al mondo è Dadaab in Kenya, nato nel ’91, che ospita 320mila persone e si è trasformato in una città, come è avvenuto per dei campi palestinesi. In teoria protetti dalle convenzioni internazionali, i rifugiati sono sottoposti a limitazioni delle libertà, che toccano l’apice nei centri di ritenzione amministrativa (Lampedusa, Tweisha Camp in Libia, Vincennes in Francia o Villawood in Australia), tutti «non luoghi» – per «non cittadini» – che non risultano su nessuna carta geografica.

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Anche i «conquistatori» vivono in accampamenti, caratterizzati dall’utilizzazione di alta tecnologia e di una logistica ben pensata. Il conquistatore si sposta per estendere il proprio potere, militare, politico, economico, scientifico: si va dalle navette spaziali alla miseria delle baraccopoli dove sono alloggiati gli operai edili o gli stagionali della raccolta agricola, strumenti della «conquista» economica di altri. L’ultima categoria sono i «contestatori», con campi come progetto politico, contro la finanza predatrice e per la difesa dell’ambiente. Sono gli «indignados» in Spagna, Occupy negli Usa, gli «zadistes» in Francia (da Zad, Zona da difendere, a Notre-Dame-des-Landes o a Sivens), dove l’accampamento propone un modello di vita alternativo, una contestazione del sistema dominante. L’occupazione dello spazio urbano come forma di lotta ha avuto luogo anche nelle primavere arabe o in piazza Taksim a Istanbul, a Maidan a Kiev, a Hong Kong nel 2012.
L’allestimento della mostra, articolato in una «tangente» – una griglia strutturale, sonora e luminosa – divide lo spazio in frammenti che mimano l’obiettivo di «efficienza qui ed ora» degli stessi campi strutturati.