In una Biennale costruita sulla dualità delle esposizioni, sulla ricerca delle giuste distanze tra spasmi di novità e museificazione, risalta come un ebollitore in funzione la capacità progettuale di alcuni «curatori» di inserire le proprie proposte all’interno stesso del reticolo artistico della città. In tal modo, Venezia assume le sembianze di un gigantesco contenitore di emotività estetiche: lo scambio diventa anche commercio di poetiche e relazioni tra luoghi che di volta in volta vengono ridefiniti dalle opere d’arte esposte. Insomma, un «site-specific» espanso in cui è facile perdersi e ritrovarsi.

Capita così che due ricercatori torinesi, Alessandro Carrer e Bruno Barsanti, s’approprino per quattro mesi, in un’operazione di raffinata riconversione di spazi d’archeologia industriale lagunare, dei magazzini e uffici di un’azienda di materiali elettrici spazzata via dalla crisi e distante un centinaio di metri dalla Fondazione Prada. Ed è quantomeno curiosa e accidentale la contiguità abnorme che si ha tra il progetto di Dearte e il remake di Germano Celant When Attitudes Become Form: Bern 1969/Venice 2013. Nei due casi l’idea è originata da due distinti e distanziati processi fondativi del ’900. Dunque, nasce così la struttura espositiva di Noise; mentre la teoria di nomi, che ascende e discende dalla «rumoristica» di Luigi Russolo, parte da Nietzsche e Jarry per risalire la corrente concettuale rizomatica di Deleuze e Guattari e sbarcare ai facili approdi degli «happening di Fluxus, fino alla musica di Jimi Hendrix e alle neuroscienze», delineata nel testo in catalogo da Boris Brollo (curatore con Marisa Vescovo), scartoccia le idee filosofiche e artistiche dell’autentico ispiratore del progetto Joseph Nechvatal, anch’egli in mostra con vOluptary drOid décOlletage, opera che unisce robotica e file informatici infetti.

Uno stop su Luigi Russolo, proprio a cent’anni di distanza dalla prima esibizione pubblica del suo «scoppiatore» poi «intonarumori» – 2 giugno 1913, tre giorni dopo la prima parigina del Sacre du Printemps di Stravinskij e davanti a poco più di 200 persone al Teatro Storchi di Modena – messa in opera dei concetti espressi nel manifesto futurista L’arte dei rumori che porta la data del marzo stesso anno. E sono queste date che aprono una voragine cronologica nella musica e nell’arte del ’900 che porta all’oggi e a un piccolo, ma agguerrito progetto che, attraverso un ventaglio di opere e artisti, subissa di domande la storia dell’evoluzione del rumore. «Ogni lingua ha la propria piccola sfumatura nell’indicare il termine» spiega uno dei curatori, Alessandro Carrer. Molte sono le relazioni concettuali che suturano le «aritmetiche archittetture sonore» di Roberto Pugliese (visivamente, l’opera più russoliana anche se spogliata degli ingombri inventati dal musicista di Portogruaro) ai murali monocromatici di Pablo Rasgado. Più ufficiali, invece, le stanze, non più site-specific e imbiancate su richiesta, dedicate ai lavori di Carsten Nicolai e Anne-James Chaton. L’effetto straniante continua con la presenza «storica» di un manufatto poverista e sonoro di Piero Gilardi, Aiguestortes del 2010; ma è una sterzata rimessa in carreggiata dalle installazioni di Lab(AU) e Francesco Quarta Colosso.