Il primo anniversario della scomparsa di Benedetto Vecchi è l’occasione giusta per raccontare il suo ruolo di instancabile animatore culturale «anche» nella narrativa di genere di questo Paese. Ovviamente, da sinistra, ne aveva colto le potenzialità di racconto sociale ma non era l’unico motivo che lo spingeva a recensire puntualmente i romanzi degli autori italiani, che riteneva interessanti, o a promuovere le iniziative estive di pubblicazione di racconti. Il suo intento principale era rendere possibile lo sviluppo di un dibattito necessario alla creazione di un’elaborazione teorica «altra», per dare senso e struttura a un percorso narrativo in cui fosse esplicita la critica radicale allo stato di cose esistenti.

Indagine sociale
Fu tra i primi, ai tempi del berlusconismo, a porre in evidenza la contraddizione, tutta politica, che caratterizzava buona parte della produzione letteraria italiana e cioè alimentare quell’equivoco che portava a credere che rivendicare la legalità dello Stato fosse sufficiente dal punto di vista della denuncia. Benedetto iniziò a spendersi non solo scrivendo sul giornale, ma anche partecipando attivamente a presentazioni e convegni. Come sempre nella sua vita in modo appassionato, coerente e sapiente.

Per chi scrive e per molti altri diventò immediatamente un punto di riferimento. Accolse con cauto entusiasmo l’adesione di alcuni autori a quella percezione, mai divenuta movimento organizzato, chiamata Noir Mediterraneo. Nato con i romanzi di Vázquez Montalbán e proseguito poi con l’opera di Jean Claude Izzo, questa forma narrativa si riprometteva di raccontare, mescolando alla finzione romanzesca elementi di verità frutto di vere e proprie indagini, le trasformazioni criminali determinate dalla globalizzazione dell’economia.

L’area di indagine era il «mare chiuso» dove si affacciano, da una parte e dall’altra delle due sponde, città che hanno pezzi di storia lunga secoli da spartire. Un progetto culturale, oltre che narrativo, di identificazione di una storia comune come forma di dialogo.

Il rischio secondo Benedetto Vecchi era quello di essere efficaci nel denunciare le infiltrazioni criminali nella politica, nell’imprenditoria e nella finanza, ma di limitarsi all’affresco nel raccontare le trasformazioni interne al capitale e soprattutto di offrire una visione del futuro priva di alternative vincenti.

Era più interessato a costruire un’articolazione di passaggio da quelle che vennero poi definite «letteratura della crisi» e «letteratura del conflitto». Il Noir Mediterraneo e altre correnti del genere (che in Italia va sempre inteso come un pentolone al cui interno sobbollono intelligenze, fermenti e tendenze imposte dal mercato editoriale) erano state in grado di raccontare genesi, sviluppo e radicamento della crisi economica e dei riflessi sulla società e sugli individui, usando trame criminali come lente di ingrandimento. A un certo punto, come era prevedibile, una parte degli autori decisero di porsi il problema di iniziare a concepire il conflitto in tutte le sue declinazioni come motore narrativo.

Benedetto fu estremamente disponibile nel sostenere questa linea, nonostante le difficoltà nel rapportarsi con anime diverse del panorama italiano, che spesso non comunicavano tra di loro. Seguì con particolare attenzione il collettivo Sabot a partire da un romanzo a 20 mani sull’inquinamento da nanoparticelle, causato dalle attività del poligono militare di Salto di Quirra in Sardegna, fino alla nascita di Sabot/Age, una vera e propria collana dedicata al conflitto pubblicata dalle edizioni e/o.

L’ultima volta che alcuni di noi ebbero la fortuna di incontrarlo per fare il punto sulla salute del genere fu al Salone del libro di Torino nel maggio 2018. Fummo felici di rivederlo sorridente, anche se poco incline a parlare di malattie.

Merce o rottura?
Suggerì tre spunti di riflessione. L’esplorazione di nuovi territori, anche stilistici, per contrastare l’omologazione del romanzo noir, ormai ampiamente digerito e trasformato in merce senza grandi capacità di rottura. Una doverosa valutazione sulla sconfitta del progetto Noir Mediterraneo annegato con i migranti davanti a Lampedusa e la necessità di includere nelle narrazioni la relazione tra società e rete. Per molti di noi un tasto dolente, un’arretratezza concettuale di spessore. Un discorso come sempre chiaro ma anche ruvido. Benedetto non faceva sconti e nelle recensioni non era mai compiacente. Se ravvisava carenze letterarie non aveva remore a sottolinearle, anche se era politicamente interessante.

E leggendarie erano le sue recensioni telefoniche. Era un intellettuale che credeva nella condivisione della conoscenza come strumento di crescita personale e collettiva. A un anno dalla scomparsa noi autori, che siamo cresciuti con lui e con le pagine culturali de il manifesto, avvertiamo cocente il peso della sua assenza.