Nel 1920 escono due libri che sembrano spartirsi il campo del dicibile: di qua – ovvero dalla parte del mondo – il romanzo di esordio di Fitzgerald, Di qua dal paradiso; di là – qualunque cosa significhi – il saggio di Freud, Al di la del principio di piacere, anch’esso un esordio: l’ormai anziano medico, sia pure di anime, si è fatto filosofo speculativo.
Insisto sulla parola «speculativo» perché è cruciale, e compare alla metà esatta del libro, la prima riga del quarto capitolo in un testo che ne conta sette: «Quello che segue ora è speculazione». Che cosa vuol dire Freud? Qualcosa di molto simile a quanto intende Kant quando sostiene che c’è un fato della ragione, una specie di destino, non si sa se funesto o benefico, che la spinge ad andare al di là dei confini che essa stessa si è posta.

Derrida del 1980
In un libro che uscirà l’anno dopo, il Tractatus logico-philosophicus, che come quello di Freud e quello di Fitzgerald aveva tratto materia dalla guerra (e nella fattispecie dalla prigionia), Wittgenstein concluderà che su questi temi bisogna semplicemente tacere, inaugurando un’epoca triste e paradossale, nella quale tutti, dai fisici ai blogger, possono speculare sui massimi sistemi (com’è giusto che sia) mentre i filosofi devono accontentarsi di questioni di dettaglio e per lo più prive di interesse (e ciò è veramente ingiusto). Questa epoca volge alla fine, dopo un secolo filosofico che ha molto risentito di un simile interdetto. Al di là del principio di piacere può essere il viatico per questa nuova stagione della filosofia, senza dimenticare che alcune delle espressioni filosofiche più notevoli del secolo scorso dovevano moltissimo al saggio di Freud, a cominciare da Derrida che gli dedicò un seminario poi pubblicato nel 1980 e intitolato (guarda caso) «speculare su Freud».

Ma di cosa tratta lo speculativo? Ovviamente della morte, e di un suo fenomeno secondario anche se particolarmente manifesto, pressante, indigente, molesto: la vita. Per buona parte della sua riflessione Freud era stato, suo malgrado, un monista e un ottimista: le pulsioni sono essenzialmente legate all’eros, dunque alla vita e alla sua perpetuazione, e il piacere è il modo in cui queste pulsioni si manifestano, inseguendoci nel corso del giorno e manifestandosi nella notte, con i sogni.
I sogni sono desideri, su questo Bianca Neve e Freud sono d’accordo. Freud però fa un passo in più in là, per l’appunto speculativo: ma allora perché abbiamo così tanti incubi? A lungo se l’era spiegato considerando gli incubi come punizione orrenda di desideri fin troppo piacevoli, così piacevoli che non osavamo neppure sognarli. Ma ora Freud avanza una ipotesi diversa e più diretta: Eros non è il fondamento che si rimuove con l’orrore, è piuttosto a sua volta una copertura, la increspatura superficiale di un desiderio profondo radicato nella vita organica, il desiderio di tornare all’origine, come un salmone o come nell’ereditarietà. Questa considerazione, che ritroviamo in Che cos’è la vita? di Schrödinger, sta alla base della successiva scoperta del codice genetico, l’alfabeto della vita che, come ogni alfabeto, è alfabeto della morte, dead letter, una lettera in giacenza che ripete, nel vivente, tratti ancestrali. E l’origine è l’inorganico, la morte, Thanatos.

Non ricordo quante volte Freud ha assicurato di non aver letto Schopenhauer per non pregiudicare con assunzioni filosofiche l’analisi scientifica (Freud nasce come positivista, non dimentichiamolo). Molto probabilmente nel dirlo non era sincero, e per capire le ragioni di questa insistenza e resistenza non c’è bisogno di essere un analista. Almeno nel saggio del 1920, tuttavia, lo menziona e in una lettera a Lou Andreas-Salomé confessa di averlo dovuto leggere, insieme a tante altre cose: «non volentieri», aggiunge.

Del resto, la presenza di Schopenhauer è un po’ un effetto da lettera rubata, perché non potrebbe essere più evidente. Eros è la superficie, la rappresentazione, il fenomeno, l’inganno; la profondità, il solo vero, è Thanatos, la corsa che ogni vivente, appena nato, intraprende verso la morte. Love’s Labour’s Lost, lo spettacolo di arte varia che Eros mette in scena nel mondo, è anche e più profondamente Much Ado About Nothing, un grande indaffararsi nel volo verso il nulla predisposto da Thanatos.
C’è qualcosa che Freud aggiunge a Schopenhauer? Certo che sì: il ruolo della ripetizione. Per Schopenhauer, che guarda al mondo con impassibilità fisica e metafisica, quello che conta è il fine, e, nella fattispecie, la fine. Per Freud è più interessante il mezzo, il fatto cioè che la vita sviluppi dei sistemi per tirarla in lungo, proprio come Sheherazade che si concede, attraverso il racconto, mille e una notte, differendo dunque di quasi due anni la propria morte.

La vita non è che questa morte differita (lo ricorda Kojève nei suoi seminari su Hegel degli anni Trenta, davvero un’epoca assiale del pensiero) e perché il differimento funzioni è necessario che ci sia una struttura, una memoria, qualcosa che permetta di farci apprezzare lo scorrere del tempo, i giorni che passano avvicinandoci alla morte e insieme disegnando il corso di ciò che chiamiamo «vita». Ne sapeva qualcosa Proust, il quale in quegli stessi anni assiali stava cercando di ritrovare il tempo perduto attraverso un’opera di memoria che non è letteratura più o meno futile, ma consapevolezza del fatto che senza memoria, registrazione, accumulo di tracce non c’è vita (immaginiamo un essere radicalmente privo di memoria: non avrebbe né vita né morte).
Ne sanno qualcosa i nevrotici, le isteriche, i traumatizzati, tutti coloro che – come il bambino citato da Freud, che per mimare l’andirivieni della madre, illudendosi così di tenerlo sotto controllo, getta lontano il suo rocchetto e poi lo ritira a sé – provano un gusto maligno a ripetere reminiscenze e sofferenze, perché that’s life e that’s amore.

Dispositivi in aiuto
C’è qualcosa che potremmo aggiungere a Freud, cent’anni dopo? Ci provo. Sempre in quei cruciali anni Venti di cent’anni fa Heidegger aveva fatto notare che proprio il fatto di morire è ciò che dà senso alla vita, prima di tutto perché le dà tempo (più o meno lungo, mai infinito, però) e dunque rende significative promesse, aspirazioni, desideri, felicità che per un immortale non avrebbero senso.
In anni, come i nostri, in cui una stupida superstizione ci fa temere l’intelligenza artificiale, questa circostanza diviene cruciale. Una macchina può ripetere tantissime volte on/off, è fatta per quello. A noi, come a tutti gli altri organismi, sono date sole due opzioni, on, e poi off, per sempre. Diversamente dagli altri organismi, possiamo però articolarci dotandoci di vari dispositivi e potenziando le nostre possibilità, conferendo così uno scopo a quei meccanismi, che di per sé non ne hanno, e a noi stessi, che come organismi non abbiamo altro fine se non la nostra fine.
La morte è un maestro tedesco, e sembra un maestro molto lontano, ma sta dietro ogni nostro gesto, ogni nostro acquisto online, ogni nostro post. Sembra triste o iettatorio, ma non è così: questo è il mondo della cultura e dello spirito, il gigantesco, divertentissimo circo che gli umani sono riusciti a mettere su mixando gli equilibrismi permessi dalla tecnica insieme al brivido e alla motivazione donati dalla morte.