Villa Ada, esterno notte. Il concerto degli Inti-illimani risuona nella calda estate romana: «Festeggiamo una nuova indipendenza dell’America latina», dice Jorge Coulon, da sempre portavoce del gruppo. E si alzano bandiere cubane per i 60 anni dall’inizio della rivoluzione, e venezuelane, per il compleanno dello scomparso presidente Hugo Chavez e i 100 giorni di Nicolas Maduro. Pugni chiusi per ogni stagione. Il pubblico chiede di ascoltare le storiche canzoni di lotta di questo gruppo cileno, vocale e strumentale, nato dal movimento della Nueva canción. «Noi non veniamo dal passato, veniamo dal futuro – dice ancora il musicista – quello in cui ci hanno già privatizzato tutto. Non andate verso quel futuro, dobbiamo farcela tutti insieme o non ce la farà nessuno«. Poi, gli otto componenti della band si alternano agli strumenti, diventano a turno la voce di tutti. «Siamo un collettivo di esperienze arricchito da tante identità. Siamo testimoni della storia», ci ha detto poco prima Jorge, rispondendo alle domande del manifesto

…Testimoni di cambiamenti epocali.

Sì, abbiamo vissuto da vicino grandi cambiamenti. La nostra generazione si è formata con la rivoluzione cubana. Siamo stati in Vietnam due anni prima che finisse la guerra. Impressionante. La gente camminava per strada e all’improvviso si calava dentro un tombino perché c’era l’allarme. Non c’erano macchine, ma solo biciclette, un paese fermo agli anni ’30 con la guerra sopra. Oggi, un amico cileno che è ambasciatore lì mi dice che è tutto cambiato. Abbiamo vissuto la caduta del muro di Berlino da entrambe le parti: facevamo concerti e avevamo amici a est e a ovest. Poi abbiamo vissuto in Italia, le discussioni ideologiche, l’eurocomunismo. Ora siamo di nuovo in Cile da 25 anni. Siamo stati testimoni della storia entrando dalla finestra. L’artista è simile al buffone di corte: è vicino al potere, ma non lo esercita, però ha la possibilità di dire cose che altri non dicono. Noi abbiamo cercato di stare dalla parte di chi non ha il potere, anzi lo subisce. Questo non ti apre molte porte, semmai te le chiude. Nel 2011 abbiamo fatto un concerto a La Paz per sostenere il diritto dell’accesso al mare della Bolivia, negato dal Cile. Il nostro nome è composto dalla parola Inti, che in quechua vuol dire sole e da Illimani, una catena delle Ande, in Aymara. A Santiago hanno minacciato di toglierci la nazionalità. Però molti altri paesi dell’America latina si sono offerti di «adottarci».

Nel vostro repertorio c’è una canzone dedicata al libertador Simon Bolivar. Oggi il suo sogno della Patria grande si rinnova in Venezuela, in Ecuador, in Bolivia. Come avete percepito questo «rinascimento»?

Nel nostro gruppo si sono avvicendate tre generazioni, andiamo dai 30 ai 60 anni. Su Facebook sono 300 mila i contatti, quasi tutti giovanissimi. Nel gruppo siamo tutto molto latinoamericanisti. Bolivar è una grande bandiera dell’America latina, ma l’unità del continente non deve essere usata per nuovi nazionalismi: perché la destra ne approfitta sempre, inventandosi problemi etnici o con il vicino di fronte alle crisi. I grandi padri delle indipendenze sono stati sconfitti nel momento in cui hanno vissuto, ma hanno vinto in prospettiva storica. Consideriamo molto interessante quel che accade nel continente: in Ecuador, in Bolivia. Riguardo al Venezuela, abbiamo avuto all’inizio qualche reticenza per via dei militari, poi però è apparso chiaro che si trattava di un processo democratico ampiamente confermato negli anni. Tutti i presidenti sono stati eletti dai popoli. Gli Stati uniti non hanno alcun diritto di interferire e men che meno di organizzare un’aggressione come quella contro Evo Morales, accusato di dare asilo a Snowden. In Venezuela le sinistre hanno dovuto imparare cammin facendo, di fronte al completo fallimento delle coalizioni, di centrodestra e centrosinistra, che si erano alternate per quarant’anni e che avevano tirato la corda fino all’inverosimile. Chávez è andato al potere perché la gente non ne poteva più. La stampa cilena ha martellato molto contro Chávez, lo davano per morto molto tempo prima. Due anni fa abbiamo suonato nella rinata piazza Bolivar. Speravamo che riuscisse a farcela: anche per il bene del processo che ha messo in moto, molto basato sull’identificazione col leader, e che non si era ancora concluso con un passaggio di consegne allargato e istituzionalizzato. È un monito anche per Correa e Morales. L’amore e la stima che Chávez ha seminato in tutta l’America latina sono un patrimonio importante per continuare in una situazione complessa come quella che oggi affronta il Venezuela.

L’11 settembre ricorrono i quarant’anni dal colpo di stato di Pinochet in Cile. Cosa ricorda di quel giorno?

Tutto, come fosse ieri. È uno di quei momenti di cui tutti ricordano ogni particolare. Il 25 luglio di quarant’anni fa siamo partiti per una tournée. Il giorno prima eravamo arrivati a Roma, per un concerto a Tiburtino III. L’11 eravamo sul cupolone quando un ragazzo ci ha detto del colpo di stato contro Salvador Allende. Facevamo politica all’università, siamo la generazione che ha lottato per le riforme universitarie, ha fatto da spalla e da base alla vittoria di Allende. Sapevamo che c’era una situazione complicata ma, forse per la nostra ingenuità di ventenni, non ce lo aspettavamo. Pensavamo non durasse a lungo. Giancarlo Pajetta, che aveva capito, e ci ha aiutato, ci ha raccomandato di restare in Italia. Siamo rimasti per 5 anni con la valigia pronta ma siamo ripartiti dopo 15.

E com’è stato il ritorno?

Il desexilio, come diceva Mario Benedetti può essere più complicato dell’esilio. All’inizio ci sono gli odori e i sapori, la Cordigliera. Poi non ritrovi più la stessa gente, in famiglia si parla di cose che non hai vissuto, di canzoni che non hai mai sentito. Lo so che la vostra situazione in Italia è stata difficile. Non sono ancora riuscito a capire come abbiano fatto quei compagni che accusavano noi di essere borghesi a tirare i remi in barca, magari a passare dall’altra parte, a tollerare che per vent’anni l’Italia abbia dovuto vergognarsi all’estero. Tuttavia mi sono mancati molto gli stimoli culturali, le discussioni appassionate.

Come valuta la situazione politica oggi, a pochi mesi dalle elezioni di novembre?

Sono convinto che solo ora, con una generazione che non ha vissuto né gli anni della dittatura né quelli del compromesso con la transizione alla democrazia, si stia cominciando a fare politica davvero. La destra ha passato 25 anni a vivere di rendita della dittatura e la sinistra ha passato lo stesso tempo a leccarsi le ferite. C’è un sistema politico bloccato. Persino il presidente Sebastian Piñera ha detto che il sistema non resiste più, ma che non c’è una formula. La formula per noi è quella di fare un’assemblea costituente e una nuova costituzione, una cosa di cui loro hanno una paura del diavolo. Il problema è che l’asse politico si è spostato decisamente a destra. Per fortuna, a forza di dividersi e di moltiplicarsi creando cellule nuove, il Partito comunista sembra aver ritrovato la bussola spinto dai poderosi movimenti di contestazione studenteschi. Avevo smesso di militare nel partito perché, dopo l’89, aveva abbassato il santino dell’Urss per innalzare quello di Cuba, ma senza bilancio e proposta. Però da 4 anni ha ripreso a fare politica in modo propositivo.

La destra è all’angolo? Michelle Bachelet sembra favorita.

La destra ha fatto una pessima figura, ma il suo sistema politico è solo il volto apparente del potere. Chi comanda davvero non si vede, non sta in parlamento. Qualcuno è venuto fuori col governo Piñera, ma il potere reale non hai nessuna possibilità di votarlo o non votarlo. Con la coalizione di governo che ha guidato, Bachelet non ha fatto molto, per esempio per la storica questione dei mapuche. Quelli della Concertación sono un po’ come il vostro Pd: analizzano, discutono, riflettono, però le soluzioni che trovano non sono adatte e le cose vanno per conto loro. Noi che abbiamo vissuto dal di dentro la prima candidatura Bachelet, sappiamo però che i vertici della Concertación non la volevano, lei è stata imposta dalla gente come succede adesso. E io ora ho una speranza, magari non condivisa da più giovani del gruppo: non essendoci un’alternativa vera, spero che faccia un governo tutto suo e che la sua storia personale possa avere un peso. Non credo né alle armi né alle chitarre, ma al potere della condivisione e della lotta comune. Oggi più che mai, nessuno può farcela da solo.