L’Europa ferita a Calais, a Ventimiglia, l’Europa delle vergogne appese sugli scogli di Lampedusa riprende vita lì dove era nata, ai piedi del Partenone. Una vittoria straordinaria, orgogliosa e patriottica, che ripristina uno spazio dialettico dagli esiti, tuttavia, ancora incerti. La partita che l’oligarchia europea a guida tedesca sta giocando contro la Grecia di Tsipras è tutta politica, per nulla tecnica, ideologia pura, volontà di potenza contro qualsiasi contagio democratico. Persino la razionalità tecnica avrebbe consigliato maggior cautela come dimostrano le parole di Stiglitz e Piketty su come mettere la Grecia nelle condizioni di pagare il 1,6 miliardi al Fmi favorendo uno swap del debito con titoli Bce in cambio di bond dal fondo di salvataggio con scadenze più lunghe e tassi d’interesse più bassi.
L’Europa è un mostro a cui la vittoria dei no rischia di dare un’altra opportunità di futuro. La sovranità popolare, in questi anni, si è trasformata in un simulacro. Il sogno europeo risulta umiliato, spiaggiato come è tra il presidio delle frontiere nazionali e il maglio dell’austerità. Un incastro devastante, come quei fazzoletti di terra di nessuno in cui i migranti in transito rimangono intrappolati. I Greci ricattati e derisi ci riconsegnano una chance che i popoli d’Europa cogliere.

Tsipras ha rilanciato e tenendo in vita la partita tra democrazia e oligarchia. Così come fanno i militanti di Podemos nelle città spagnole e la sinistra turca e curda sul confine estremo del continente. Tuttavia lo spettacolo vergognoso dei socialdemocratici tedeschi è persino peggiore di quello offerto dai conservatori. Come nel caso del vice cancelliere della Spd Sigmar Gabriel, «Tsipras vuole il diritto a non rispettare le condizioni». Così come è imbarazzante la furbizia tattica e la subalternità di Renzi alla cancelliera Merkel, la mossa del giorno ha riguardato, ancora una volta, il tentativo di sostituire a suon di ammiccamenti il patto franco tedesco con uno italo germanico. Ma non convince nessuno: Renzi perde l’occasione storica di provare a fare squadra con la Francia e consegna il nostro Paese all’irrilevanza. Un’altra partita persa dal funambolico leader a corto di idee e strategie di respiro europeo. In questo senso fa riflettere Bifo quando ci ricorda di come abbiamo sconfitto il nazismo senza sconfiggere le condizioni che lo hanno prodotto, «se ci siamo liberati del nazismo come evento storico, ancora non ci siamo liberati da ciò “che ha reso possibile” il nazismo, e precisamente la dipendenza della volontà e dell’azione individuale dalla potenza ingovernabile della tecnica».

E la piega distruttrice che ha preso l’Europa non c’entra con la moneta e la sovranità monetaria, non c’entra con il primato tecnocratico, c’entra scelte esclusivamente politiche. Oligarchiche e politiche. E non c’è salvezza nella inversione a U che riconsegna l’orizzonte agli Stati nazionali. Meglio continuare a battersi sul terreno europeo magari prendendo sul serio l’elaborazione che ha portato i curdi ad abbandonare l’idea del potere connessa allo stato nazionale, avviando invece una rielaborazione che pone l’accento sulla dimensione territoriale e la cooperazione tra comunità, generi, vivente umano e non umano. Non comunità di destino né piccole patrie ma l’esercizio quotidiano dell’autogoverno e dell’autoeducazione al cambiamento.

Il dibattito a sinistra, per non somigliare a una categoria dello spirito, si situa qui, a metà del guado tra ciò che siamo stati e quello che ancora non siamo. Dentro opportunità e sconfitte su scala continentale. A favore di vento, quello caldo che spira dal mediterraneo, contrapposto alle correnti gelide provenienti da nord. Una discussione importante quella avviata con la fuoriuscita di autorevoli esponenti del Pd, sommovimento ancora tenue che va sostenuto. In Star Wars si racconta che la democrazia muore sotto scroscianti applausi. Noi rischiamo di vederla morire a spalti vuoti, nel disinteresse più generale. Riprendere il filo significa dare potere agli individui, dare l’idea che si voglia costruire un processo fatto di persone e non di personaggi, un processo capace di ripopolare il campo, ben oltre lo scambio di figurine, dove peraltro si rischio che i “mi manca” siano sovrastanti rispetto ai “ce l’ho”. Un processo costituente dunque da incoraggiare, sostenere, allargare. Con i piedi piantati a terra, facendo i conti con la concretezza di un posizionamento politico socialmente utile. Minimo come il reddito, comune come il luogo e la pratica, multiplo come il molteplice.

Sel deve decidere collettivamente e in fretta quale ruolo giocare. Ha la possibilità di vedere avverata la propria profezia sulla riapertura della partita. Di investire il proprio insediamento, i nessi amministrativi, i militanti, il gruppo parlamentare, tutto il capitale sociale accumulato in un possibile rimescolamento di culture critiche fondate su processi di moderna uguaglianza e liberazione. Farlo con generosità, senza dare l’idea di un atteggiamento ecumenico che potrebbe essere scambiato con un rompete le righe. Perché persino la generosità può diventare una irresponsabile colpa. Non c’è urgenza oggi di contemplazione mistica, né di atteggiamenti descrittivi e men che meno del “battutismo” bulimico, c’è invece bisogno di cultura politica e pratica militante capaci di traghettare il cumulo di esperienze in un progetto innovativo e inedito. Dove tutto sia contendibile: dal nome del nuovo soggetto, alla forma, all’impianto culturale fino ad arrivare alla leadership. Innovando anche qui, investendo su una leadership plurale, connotata dai generi, dalle generazioni e dall’insediamento territoriale. Il tutto per il tramite della democrazia integrale. In rete e in piazza. Senza paracaduti e clausole di salvaguardia pattizie che sanno di muffa. Senza boria, senza timidezze. Con l’orgoglio di chi porta nella nuova storia, non solo un punto di vista, o un ceto politico in cerca di riposizionamento, ma un patrimonio indispensabili alla nuova casa. Soprattutto una cultura politica contemporanea capace di coniugare radicalità, diritti individuali, conversione ecologica, attenzione alla nuova composizione sociale precaria con la pratica dell’alternativa di governo. Nessun angolo in cui rinchiuderci, ma la voglia di giocare la partita, dentro la crisi e la irrisolta transizione italiana.

È il tempo del coraggio. Lo ha avuto Tsipras sfidando i Titani, mettendo in gioco tutto quello che Syriza ha costruito sin qui ridando forza e dignità alla parola politica su scala continentale. Più modestamente possiamo mettere in gioco la nostra quota di coraggio provando fino in fondo a cambiare il Paese. Cominciando dal cambiare noi stessi. Le persone non si rottamano, ma le liturgie autoassolutorie e la prudenza magari sì. Sarebbe un inizio promettente.