Ha incontrato Liu Xiaobo nel 2008, circa una settimana prima del suo arresto: l’ultima intervista. E quelle immagini sono state poi caricate online nel 2011 dalla moglie dell’intellettuale e dissidente morto il 13 luglio scorso, dopo nove anni di prigione. Non poteva avere idea, Huang Wenhai, del valore testimoniale e storico che quell’incontro avrebbe poi acquisito. E anche con i film che realizza, si rende conto – commenta – «solo dopo della loro reale portata politica. Come nell’ultimo: vediamo cosa succede a certe persone, ma molte sono state arrestate o hanno avuto problemi seri con le autorità anche dopo». Tra le sue visioni indimenticabili cita Roma di Fellini. Ama Tarkovskij, Pasolini, Antonioni. Considera Pedro Costa figura imprescindibile del cinema contemporaneo; non manifesta particolare entusiasmo per le opere di Jia Zhangke, poiché, l’umanità, lì, sostiene, «non è centrale». Huang Wenhai (Crust, We, Reconstructing Faith) prova a dare un nome a ciò più sente urgente: «La questione principale del mio lavoro da regista riguarda le emozioni degli esseri umani. E Il documentario, assai più del cinema di messa in scena, ti permette di conoscere tanti luoghi, tante persone diverse, per vivere la loro esperienza reale nel mondo: qualcosa che con gli attori, invece, specialmente quelli cinesi, ti è preclusa, perché molto spesso sono inautentici».

È una mattina caldissima a Specchia, sono i giorni della Festa di cinema del reale diretta da Paolo Pisanelli (giunta alla sua XIV edizione, dal 19 al 22 luglio), ed è un piacere conversare al fresco di un bar con il quarantaseienne regista nato nello Hunan, esule a Hong Kong, persona dolce e cordiale, cineasta colto e coraggioso, che qui ha presentato in anteprima italiana il suo We The Workers, flusso di quasi tre ore sulla Cina «Fabbrica del mondo», viaggio geografico e sentimentale tra attivisti, avvocati del lavoro e operai: duro, forte, ma non privo di istanti di straniante levità, in un certo senso, quasi come in sospensione. Le loro battaglie, le paure, le violenze subite, ma anche, ad esempio, il capodanno cinese, il divertimento di un gruppo di uomini e di donne in un locale. Un diario collettivo, un affresco politico di individui in cerca di coralità. Un inizio, di circa 15 minuti, che sembra arrivare da un altrove, quasi fosse un film di fantascienza, girato su un altro pianeta, e le immagini finali che sembrano portare nuovamente il documentario in un’altra dimensione. «In generale mi interessava proprio un incontro tra concreto e astratto, perché altrimenti la troppa concretezza avrebbe appiattito la forma rischiando di fare di questo lavoro non un’opera ma una notizia. E sebbene non vi siano cartelli a rimarcarlo, possiamo considerare We the Workers come un film diviso in cinque nuclei, o capitoli, atti. Mentre montavo si sono venuti a formare nella mia testa e ho dato loro anche dei possibili titoli: “La fabbrica del mondo”, “La vita quotidiana dentro le associazioni non governative”, “A stretto contatto coi lavoratori”, “Picchiati. Colpiti”, “Il sorriso di una lavoratrice”. Un progetto che gli è costato molti anni (dal 2008 al 2015) di ricerche, fra interruzioni e nuovi inizi; film presentato per la prima volta quest’anno al Festival di Rotterdam, mentre in Cina finora è stato impossibile proiettarlo, trovando tuttavia visibilità in alcune ambasciate occidentali. «Le mie opere precedenti erano riuscite a varcare quei pochi contenitori e festival indipendenti del Paese, ma negli ultimi sei o sette anni le cose sono peggiorate: di luoghi culturali di autonomia e resistenza non c’è quasi più traccia. E anche di questo ho scritto nel libro (The Gaze of Exile. The Testimony of China’s Independent Documentaries, ndr), commissionatomi dall’Università di Hong Kong e pubblicato nel 2016. Credo sia un volume molto completo, ne sono fiero».

Libro nel quale collocazione rilevante ha senz’altro Wang Bing, suo compagno di studi di cinema e regista col quale ha collaborato in più occasioni. «È un nome molto importante. Dal punto di visto artistico ho un’ammirazione profonda per lui, lo conosco e lo comprendo molto bene. E poi, anche grazie a lui ho potuto continuare We The Workers: nel 2011, infatti, i soldi per il film erano finiti; in seguito Wang Bing mi ha chiamato per la direzione della fotografia di Three Sisters e in questo modo sono potuto ritornare nelle campagne cinesi. Il lavoro, le riprese, sono durati circa due anni, e in questo tempo siamo potuti entrare in contatto con gli agricoltori costretti a emigrare in città. Ho iniziato a chiedermi: questi uomini e donne, la cui provenienza e storia culturale è stata distrutta per farli lavorare nelle fabbriche urbane, non hanno neanche il diritto di discutere dei loro diritti, del loro salario? Erano una piccolissima parte di quelle centinaia di milioni di persone sradicate che con la loro migrazione interna sono le protagoniste della “Fabbrica del mondo”. È stato un passaggio fondamentale per me. Tornando a Wang Bing, invece, devo aggiungere che ora il nostro rapporto si è incrinato, ma nei legami ci sono periodi di avvicinamento e di allontanamento. È innegabile, però, che lavorare al suo fianco sia stato preziosissimo per il mio cinema, per la mia persona».

E il cinema, prima di tutto, è un luogo conoscitivo per Huang Wenhai. Collaborare a Human Flow di Ai Weiwei – lo vedremo a breve in Concorso alla Mostra di Venezia – gli ha dato, in questo senso, un’altra occasione. «Siamo stati in Turchia, in Grecia, in Siria, Tunisia… nazioni con molte fratture interne, sebbene diverse e di differente gravità. Ho vissuto sensazioni molto forti: in Tunisia ho potuto conoscere alcune associazioni femministe molto vitali, è un Paese difficile ma che un suo equilibrio per certi versi lo ha trovato; la Siria, invece, praticamente non esiste più. Quando sono ritornato a casa mi sono ritrovato necessariamente a dover modificare certe cose di We the Workers».

E le tre parole che come ogni anno la Festa di cinema del reale sceglie come sottotitolo del suo immaginario suggeriscono al regista le ultime riflessioni. Questa volta Pisanelli ha scelto Mostri/Miracoli/Meraviglie. «Presentare il film in Italia è stata per me un’occasione speciale. È il Paese di Marco Müller, figura capitale per la diffusione delle opere e degli autori cinesi È stato il primo a far conoscere i documentaristi del mio Paese in Italia. Sono contento, poi, perché in questi giorni ho scoperto il cinema di Cecilia Mangini, bellissimo. Sono contento, soprattutto, perché considero un miracolo e una meraviglia, insieme, il fatto di essere riuscito a finire il mio film: c’è, esiste. E del resto molte altre opere, in Cina, che non piacciono al potere, sono dei miracoli, perché consentono di capire e mostrare questioni che altrimenti non si saprebbero. I mostri, invece, sono quelli che ho dentro, creature che un film come We the Workers mi ha aiutato a scoprire. E a combattere».