I«no global», nati a cavallo del millennio, sono stati un movimento forte, diffuso, efficace. Potremmo anzi dire che siano stati proprio loro ad imporre all’attenzione i nuovi grandi problemi che la globalizzazione andava ponendo al mondo. Sono stati un movimento di sinistra, perché hanno individuato nel capitale finanziario e nel liberismo il motore del nuovo assetto. Da qualche tempo, a partire da questi anni di crisi, l’attacco alla globalizzazione parte soprattutto da un’altra sponda: dai sovranisti di ogni sorta che, in nome del ritorno alle «piccole patrie», si intrecciano quasi sempre con il razzismo. «Ciascuno a casa propria», insomma, il libero movimento degli umani associato al liberismo, che, invece – come sappiamo bene – esclude dalla mobilità proprio loro, mentre sollecita un illimitato e sregolato scambio di merci, servizi e capitali.

Ne parliamo con Carlo Petrini, fondatore di Slow food, alla vigilia della dodicesima edizione di Terra Madre, il Salone internazionale del gusto che si apre oggi a Torino.

Petrini, non c’è il rischio che si crei una gran confusione anche attorno a molti slogan di Slow Food: il formaggio Rochefort, per esempio, impugnato da José Bové nella grande manifestazione di Seattle che sfidò, nel 1999, l’Organizzazione Mondiale del Commercio che in quella città teneva il suo summit era rivendicazione patriottica? O, invece, con quel gesto il contadino francese rivendicava il valore, anche culturale, di un prodotto che portava il segno del territorio dove è stato concepito e riprodotto per secoli, protestando contro la standardizzazione degli alimenti, contro la «sottillette» regina dei McDonald? Anche il «mercatino a Km zero» non rischia di diventare la bandiera di questo rigurgito sovranista, o si riesce a far intendere che la difesa della diversità non è chiuso localismo?

Bisogna stare attenti all’equivoco delle parole. Per Terra Madre, così come in generale per tutto il movimento Slow Food, la globalizzazione è il sistema economico-finanziario che soffoca le piccole realtà imprenditoriali locali in nome delle multinazionali e dei grandi poteri che dominano il mondo. L’obiettivo del nostro movimento è di spostare il baricentro delle decisioni per metterle nelle mani di chi opera sul territorio, ma questo non ha nulla a che fare con il localismo, e anzi sollecita e promuove vitalità economica e per questo cerca il confronto con il mondo. Non siamo contro lo scambio, ma per uno scambio di cui siano protagonisti gli esseri umani che operano sui territori, non le multinazionali e i loro epigoni: i supermarket. Questa è modernità, non quella che punta su servizi per pochi e di pochi, un modo tutto centrato sul valore di scambio anziché sulla collaborazione, la fraternità. Quel che voglio dire è che l’economia locale non è una dimensione restrittiva, chiusa, ma è l’economia di chi opera sul proprio territorio e vuole dialogare e scambiare esperienze e creatività con altri territori. Noi siamo ottimisti. In un tempo in cui tutto sembra degenerare almeno qualcosa va bene: c’è un ritorno di giovani che si impegnano nella piccola impresa e che amano confrontarsi, condividere. La riscoperta di una dimensione comunitaria non ha nulla della chiusura sovranista e razzista, è oggi una grande risorsa contro la crisi della partecipazione. Che stenta a trovare canali, vista la crisi e dunque il declino delle forme tradizionali, i partiti, i sindacati innanzitutto. Frithjof Capra, uno dei più grandi ecologisti del nostro tempo, ripete sempre, giustamente, che la comunità sarà la dimensione della convivenza del futuro, perché nella comunità la sicurezza è affidata all’affettività. È una grande sfida, che non sopprimerà ma anzi renderà più plurale lo scambio, non più ristretto a un pugno di protagonisti, in una parola allargherà la partecipazione al mondo.

«Aiutiamoli a casa loro», ecco un altro slogan dal significato ambiguo. Certo che bisognerebbe, e i primi ad esser contenti di restare a casa propria sarebbero del resto i migranti. In realtà, tuttavia, quello slogan suona diverso, dice «andatevene a casa vostra». Sarebbe possibile, oggi, e se sì come, aiutare davvero i popoli di quello che un tempo chiamavamo «terzo mondo», che erano poi i continenti ex coloniali?

Conosciamo le devastazioni che il colonialismo ha prodotto, imponendo monocolture, scambi ineguali, depredando questi paesi di preziose energie umane. A queste va aggiunta oggi la catastrofe climatica. Oggi le colture devono esser spostate 150 km più a nord e 150 metri più in alto per reggere ai mutamenti intervenuti. Per bloccare i processi in atto l’agricoltura ha un ruolo decisivo. Questo settore è infatti al tempo stesso vittima e carnefice, vale a dire produttore di degrado climatico. Nel suo complesso oggi incide su questo fronte per il 34%. Molto di più della mobilità che di solito si considera il fattore principale del guasto. Ma l’agricoltura può, potrebbe, essere la soluzione. Se si riuscisse ad ottenere un mutamento dei modelli alimentari dell’umanità. E allora prima di tutto «aiutarli a casa loro» significherebbe ridurre l’impatto climatico, riducendo di almeno il 50% il nostro consumo della carne. Ma questa riduzione sono gli abitanti del nord che devono operarla, sono loro che consumando una media di 92 chili di carne l’anno per persona (125 gli Stati Uniti) , una quantità non sostenibile, diventano la prima causa che impoverisce tutti ma in particolare l’agricoltura del sud del mondo, colpita da siccità e tutto il resto. Io non sono un vegano, però mi impegno e chiedo a tutti di ridurre ciascuno del 50% il proprio consumo di carne, in fondo 100 anni fa ne consumavamo 22 chili l’anno e siamo sopravvissuti lo stesso. Questa non è una scelta che può esser imposta dai governi, con una legge. È una scelta di comportamento che deve esser adottata da ognuno. I comportamenti oggi incidono enormemente, serve soggettività dei comportamenti individuali e collettivi, adottarli è politica.

Bisogna bloccare la catastrofe climatica e però anche creare le condizioni per uno sviluppo ecosostenibile, impossibili fin quando i mercati dei paesi poveri continueranno a subire l’invasione di prodotti esteri ( e dei relativi modelli culturali), le leggi dello scambio ineguale.

È il grande inganno degli «aiuti», finalizzati sempre più a creare le strutture e le condizioni per assorbire le esportazioni anziché per consentire uno sviluppo sostenibile dell’agricoltura. I cosiddetti aiuti oggi in Africa vengono consegnati nelle mani di governanti-canaglia che li usano per aprire le porte all’invasione (e per arrivare in Europa in aereo anziché in barcone). Gli aiuti dell’Unione europea potrebbero aiutare davvero se invece di essere finalizzati all’incremento del commercio mondiale fossero usati per rispondere alle esigenze – innanzitutto quelle alimentari – locali. Nel senso, ovviamente, di aiutare a costruire le strutture che mettano in grado le popolazioni di conquistare sovranità alimentare, di non essere più alla mercé di qualche pacco dono. Non è possibile risolvere il problema delle massicce migrazioni che oggi si verificano se non si capisce cosa la globalizzazione, vale a dire lo strapotere del capitale finanziario e delle multinazionali, sta producendo nel mondo.