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Noce e delizia della frutta secca

Noce e delizia della frutta secca

Il consumo del più popolare dei frutti a guscio è una tendenza planetaria. In Italia se ne mangiano sempre di più anche se la produzione è in notevole calo

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 1 agosto 2024

La noce non è solo un frutto che consumiamo sulle nostre tavole da tempi antichissimi, in cui era importante fonte di sostentamento per la popolazione, ma è anche un alimento su cui puntare nel presente e nel futuro, per le sue preziose proprietà alimentari e perché può aiutare il pianeta a sostenere un minore consumo di carne, alleggerendo così l’impatto dell’uomo sull’ambiente. Giuseppe Calcagni è presidente del comitato sostenibilità, scientifico e affari governativi dell’International Nut and Dried Fruit Foundation Council, che raggruppa oltre 700 operatori di frutta secca e frutta essiccata in tutto il mondo.

«LA PRIMA COSA DA INQUADRARE è che a livello mondiale si producono noci in oltre 120 paesi, contando le diverse varietà. Si va dalle antichissime varietà indigene a quelle più diffuse a livello commerciale, fino alle nuove ibridazioni. Complessivamente, nel mondo si producono 2 milioni e 700 mila tonnellate di noci all’anno».

IL NOSTRO PAESE E’ STORICAMENTE LEGATO alla produzione – calata drasticamente negli ultimi 40 anni- e al consumo, che invece è in forte aumento. «L’Italia è tra i grandi consumatori insieme alla Francia e alla Cina: da noi il consumo è nell’ordine di 1,2 chili all’anno di sgusciato, 3 chili con guscio (fonte: ufficio statistico dell’International Nut Council, 2023, ndr). I consumi sono più o meno sugli stessi livelli della Francia e anche loro, che rappresentano il 50% circa della produzione europea, devono importare.

L’ITALIA E’ AL 15% CIRCA DELLA PRODUZIONE continentale, Ungheria, Polonia e Romania sono altri paesi che hanno quote importanti. La Spagna invece è in calo, mentre il Portogallo conta ben 4 mila tonnellate, non poco per un paese di così limitate dimensioni».

NEGLI ANNI ’60-’70 L’ITALIA produceva circa 60 mila tonnellate di noci l’anno, ma la produzione è calata drasticamente fino ai primi anni Duemila, mentre ora si è stabilizzata. «Produciamo circa 18 mila tonnellate di noci l’anno. Di queste, due terzi entrano nei cicli commerciali, il resto è produzione in ambito familiare/locale e non è poco sul totale. L’export è limitato a 800 tonnellate e così dobbiamo aggiungerne altre 38 mila per il mercato interno. Si stima che in Italia consumino noci circa 60 italiani su 100. Importiamo principalmente dagli Stati Uniti e dal Cile».

NONOSTANTE UNA COSI’ INGENTE NECESSITA’ di importare, non si registra un aumento delle coltivazioni, anche perché le nuove introduzioni sono compensate dalle perdite dei vecchi noceti. «Tra la fine degli anni ’90 e i primi Duemila la produzione si è praticamente dimezzata ed è arrivata a 30 mila tonnellate, quindi è calata ancora fino a 15 mila. Ora siamo stabili, ma sono state abbandonate molte produzioni in Calabria, Sicilia, Piemonte e Liguria. Un tempo la noce era un prodotto di tutte le nostre regioni e ora praticamente abbiamo noceti solo in Veneto, Emilia-Romagna, Abruzzo, Umbria, Campania e Piemonte, almeno per quanto riguarda i volumi più significativi a livello commerciale. Tecnicamente, dal 1980 non si è più impiantato nessun noceto importante, quindi per le coltivazioni nostrane parliamo di piante che ormai hanno almeno 40 anni».

ATTUALMENTE NON SEMBRIAMO IN GRADO di competere con la concorrenza straniera. «Le noci americane di qualità pregiata valgono circa 2,5 euro al chilo, le cilene 3 al chilo. I nostri produttori non riescono a portarsi sui 3-3,50 euro al chilo, che permetterebbero di essere davvero concorrenziali. D’altronde in California si arrivano a produrre 4 mila 500 chili per ettaro, in Cile anche 5-6 mila chili, da noi siamo appena a 2 mila. Il 75% dei nostri produttori non vuole abbandonare la coltivazione, ma lo fa per una questione principalmente affettiva, per continuare a presidiare il territorio, per proseguire nel solco di una tradizione».

LA SOLUZIONE PER RESISTERE CON SUCCESSO va individuata nella produzione di qualità, come già avviene nel Feltrino, nel Sorrento, in Trentino. In Emilia-Romagna stiamo assistendo all’impianto di nuove colture pregiate, che hanno rimpiazzato mele, pere e pesche. «Puntando su una produzione di questo tipo potremmo arrivare a posizionarci sul mercato a 4 euro al chilo».

IN GRANDE AUMENTO E’ ANCHE IL CONSUMO di noci sgusciate, circa il 30% in più rispetto agli anni ’90. L’incremento della pratica sportiva, la necessità di consumare pasti veloci, pratici, ma allo stesso tempo nutrienti e facilmente trasportabili «è una tendenza planetaria: India, Cina, Nord America, Europa, stiamo andando verso i 3 miliardi di consumatori. La cosa più interessante è che una volta la frutta secca veniva considerata una cosa da anziani, mentre ora abbiamo notato che sono i giovani a consumarne di più. Anche dal punto di vista dell’evoluzione del prodotto si registrano tendenze di rilievo: le noci tradizionali hanno circa il 40% di gheriglio sul totale, le varietà più recenti arrivano anche al 55%. E poi ci sono paesi – come la Cina – dove si consumano le cosiddette paper shell walnuts, che hanno un guscio molto sottile e per le quali il gheriglio arriva addirittura al 70% del totale».

IL LAVORO DELL’INTERNATIONAL NUT Council è anche in gran parte quello di promuovere la cultura della noce, che di suo ha alcuni argomenti decisamente convincenti dalla propria parte. «Attualmente possiamo contare su ben 54 studi universitari che hanno la finalità di promuoverne il consumo. Le noci sono una fonte importante di calorie e proteine: 40-50 grammi di noce sostituiscono 225 grammi di carne, pensate a tutto quello che significa in termini ecologici». Non è solo il valore nutrizionale a essere vantaggioso: riduzione degli allevamenti di bestiame, minore consumo di acqua, sono tutti argomenti in favore della coltivazione della noce.

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