Due tipi di cellule cerebrali, rispettivamente una che si trova nell’ippocampo scoperta da John O’Keefe e le «cellule griglia» scoperte dalla coppia May-Britt Moser e Edvard Moser, presiedono all’orientamento nello spazio. Così almeno stando agli esperimenti fatti sul cervello dei ratti, ma che dovrebbero valere anche per gli umani. Sono ricerche queste che sono state premiate con il Nobel per la medicina.
La motivazione ufficiale per il premio dell’Accademia svedese menziona un elemento cruciale il quale – al di là di questi studi specifici che riguardano i neuroni e le loro indicazioni rispetto la direzione verso cui andare – concerne le neuroscienze in generale. Questo elemento è la mappa. Molti, infatti, sono i progetti che a vario titolo vogliono mappare il cervello. Sin dalla neurobiologia ottocentesca, specializzatasi nella scomposizione in parti del cervello che individuano le diverse funzioni intellettive e affettive e fino alle ricerche di Golgi e Cajal che hanno dato l’impulso allo studio cellulare e poi sinaptico del cervello.
Oggi è soprattutto la connettomica, nuova branca delle neuroscienze, a studiare la mappatura delle connessioni neuronali principali nelle quali rimarrebbero i ricordi fondamentali che costituiscono la nostra identità. La connettomica è il corrispettivo della genomica, pure impegnata a mappare i geni degli organismi. Ma nel caso delle ricerche degli scienziati che hanno ricevuto il Nobel, pur trattandosi di mappe, la questione è un po’ diversa. Non si tratta qui tanto di ricostruire la struttura che ci guida all’interno del cervello, ma individuare proprio come quest’ultimo produca mappe che servono alla persona per orientarsi nello spazio esterno.
Non a caso, molto prosaicamente, a proposito delle ricerche di O’Keefe e dei coniugi Moser, si parla di scoperta del gps cerebrale. Una metafora – quella del gps – che però rivela non soltanto un’inadeguatezza di fondo nelle descrizioni delle rilevanti acquisizioni scientifiche di questi studi, ma anche l’insufficienza dell’idea di mappa e di spazio, che oggi sembra prevalere in generale in ambito neuroscientifico e non solo.
Come sanno tutti quelli che lo utilizzano, il gps è un dispositivo che serve proprio a evitare l’uso delle mappe. È un sistema che riduce al minimo le coordinate spaziali sullo schermo e che guida verbalmente, passo passo . Ciò facendo il dispositivo gps elimina tutti gli elementi di contesto che invece troviamo nel momento in cui apriamo una mappa e cioè quelli che rendono al contempo più difficile individuare le coordinate che ci interessano in quel momento sulla superficie, ma che ci permettono più facilmente anche di visualizzare a mente una mappa. Ovvero di farci un’idea del luogo in modo da non aver bisogno proprio del gps ogni qual volta ci si torna.
La mappa mentale che il gps impedisce di prodursi non sta né completamente all’interno né all’esterno, ma ha, in un certo senso, bisogno di entrambi i versanti per prodursi. Se le scoperte fatte da O’Keefe e dai Moser assomigliano al gps allora non sono il modo attraverso il quale il cervello mappa lo spazio. Sono un lato di questo processo. Affinché ciò sia completo e acquisisca lo status di una mappatura occorre sempre una componente esterna, un luogo, una distanza. In tal senso, forse sono queste ricerche coronate dal Nobel che avvicinano ad una più corretta comprensione del funzionamento del cervello. E cioè alla considerazione di quel che è fuori di esso: lo spazio fisico propriamente detto e, con esso, quello sociale e politico.