Quella di Donald Trump è una storia interamente, genuinamente americana. Ed è questo, sopra ogni cosa, quel che spiazza dell’esito dell’inchiesta condotta da Robert Mueller, un lavoro silenzioso e operoso d’indagini durato 675 giorni con l’ascolto di quasi cinquecento testimoni.

Spiazza i tanti convinti che Trump fosse solo una marionetta nelle mani di una potenza straniera ostile, il nemico numero uno dell’America. Un agente di Mosca arrivato fin dentro il perimetro della Casa bianca. Un agente che l’inchiesta dello Special Prosecutor avrebbe smascherato. Un giudice salvatore della patria. Che avrebbe fatto uscire dallo studio ovale il presidente in manette.

Un Trump «straniero» è più semplice da decifrare. Già, è più facile considerarlo un corpo estraneo rispetto a un sistema che, secondo la vulgata dominante, ha sempre funzionato, anche quando ha eletto illegittimamente due volte un presidente che illegittimamente ha portato una guerra che non s’è conclusa in Medio Oriente.

Dacché è stato eletto, ma anche prima, il fenomeno Trump è stato letto come un’anomalia, una deviazione traumatica lungo un percorso virtuoso, un deragliamento inspiegabile se non come l’esito di un lungo e abile lavorio dei russi. Sul New Yorker Masha Gessen osserva che una simile teoria «aveva la forza attrattiva della risposta segreta alla catastrofe, tale da rendere l’inimmaginabile improvvisamente spiegabile».

Aver puntato il grosso delle carte sulla rimozione di Trump per via giudiziaria, smascherandone l’identità di agente al servizio di Putin, si rivela ora un boomerang: «La magica, istantanea soluzione della tragedia Trump è morta», recita il titolo dell’articolo di Gessen.

Si potrà argomentare che la vicenda del Russiagate non è finita con la consegna al ministro di giustizia Barr e ai presidenti delle commissioni giustizia di Camera e Senato del rapporto sul Russiagate. La House, a maggioranza democratica, può esigere la divulgazione dell’intero rapporto. E ha la facoltà costituzionale, come ricorda il New York Times, di decidere «se la condotta del presidente rientri tra gli alti crimini e misfatti che giustificano l’impeachment».

Inoltre sono in corso altre indagini giudiziarie, statali e federali, sugli affari della Trump Organization e della sua fondazione caritatevole, su tangenti e sull’uso improprio di fondi elettorali. E poi attendono ancora risposta i tanti interrogativi che sollevano il caso Manafort, il licenziamento di Comey, la vicenda del legale Cohen.

Senza contare che del report è stata resa pubblica solo la sintesi. Quel summary contiene però la frase chiave che massimamente interessa Trump: «L’inchiesta del superprocuratore ha concluso che né il comitato elettorale di Donald Trump né alcuno dei suoi consiglieri hanno cospirato o si sono coordinati con la Russia nel tentativo di influenzare le elezioni generali del 2016».

Poche parole che consentono a Trump di passare al contropiede minacciando una controinchiesta per colpire chi ha avviato il Russiagate e che, soprattutto, gli danno modo di costruire su questa «assoluzione» la piattaforma per la rielezione nel 2020, dando ancora più fiato alla litania di una «caccia alla streghe» nei suoi confronti orchestrata dai liberal e dai media con cui già intrattiene i suoi fan negli interminabili comizi della sua campagna elettorale permanente. S

e i democratici appaiono disorientati dalle conclusioni di Mueller e reagiscono in ordine sparso, con in testa la speaker Pelosi che esclude la possibilità di avviare un procedimento di impeachment, sono i media ad accusare il colpo. Il disprezzo e l’odio verso i media progressisti – New York Times, Washington Post, Newsweek, New Yorker, Cnn, Msnbc – sono i tratti più caratterizzanti di questa presidenza. Sentimenti ricambiati, non senza un evidente interesse, anche di tipo commerciale.

La crisi dei vecchi mezzi d’informazione è stata inaspettatamente mitigata dall’affermarsi sulla scena di un presidente-personaggio mediatico che, in un gioco perverso di specchi, è stato dilatato, traendone profitto nei confronti della sua base, verso la quale ha agitato con spregiudicata abilità la bandiera della vittima delle odiate élite. Offrendo ogni giorno nuovo materiale ghiotto a giornali e talk show.

I media hanno così colmato l’assenza politica dei democratici, travolti dalla sconfitta di Hillary Clinton e a lungo incapaci di ricomporsi. Con la riconquista della Camera, lo scorso novembre, i democratici hanno registrato un’inaspettata ripresa, anche per merito di personaggi nuovi sospinti da una notevole mobilitazione militante.

L’importante è che su questa spinta si costruisca l’alternativa politica a Trump, in vista delle presidenziali, senza ulteriori illusioni di scorciatoie giudiziarie, che servono, forse, più ai giornali per vendere copie e che ai democratici per conquistare elettori.