No, con il PNRR non si farà la“rivoluzione verde”, come ha voluto definirla Draghi con un trionfalismo che non si addice al suo tono usuale. Diciamo piuttosto che nel piano approvato dal Parlamento c’è una sottile linea di verde che tuttavia, per esser riconosciuta come tale, ha bisogno vengano spiegate ufficialmente molte scelte fino ad ora lasciate nell’ambiguità perché frutto di decisioni prese in incontri non resi pubblici, primo fra tutti per il rilievo delle rispettive aziende, quello, il 13 aprile scorso, fra Draghi e Cingolani, con i manager dei cinque gruppi – uno privato, quattro sotto controllo pubblico: Stellantis, Eni, Enel, Snam e Terna.

Solo quando sapremo bene cosa hanno concordato potremo così capire cosa si intende realmente fare e cosa si impedirà che venga fatto. Come, per esempio, usare l’idrogeno per sdoganare il metano, che dovrebbe invece esser del tutto eliminato. Un’ipotesi che non è peregrina, visto che Snam punta esplicitamente a rilanciare i metanodotti affinché trasportino un po’ di idrogeno e molto gas.

L’intervista rilasciata il 28 scorso a Repubblica dal ministro Cingolani aggiunge oltretutto ulteriori perplessità. Non solo perché viene per la prima volta ufficialmente confermato il mega-progetto di interramento della CO2 previsto a Ravenna e il fatto che riceverebbe anche un finanziamento dal Recovery. L’Eni, del resto, a una recente assemblea dei suoi azionisti, aveva già presentato un piano di investimenti per il quadriennio 2020-2023 di 24 miliardi per il settore degli idrocarburi, di cui il 70% destinato alle fonti fossili, e solo l’8% a quelle rinnovabili.

Ora 1,35 di questi miliardi sarebbero – è stato annunciato – destinati al megadeposito previsto a Ravenna, un’impresa per nulla garantita dalla scienza, anche per via della criticità ambientale della costa adriatica. Sarà il più grande del mondo, e non sembra presentare alcun vantaggio dal punto di vista economico: il solo impianto simile esistente, quello nel Texas, del resto, verrà chiuso il 26 giugno prossimo perché i suoi costi si sono rivelati troppo alti. (E vista la conclusione negativa che dell’esperimento ha tratto questa grossa azienda privata americana non ha molta credibilità l’accenno fatto in questi ultimi giorni da Biden in favore di quella soluzione).

Preoccupante, più in generale, è comunque l’insistenza con cui Cingolani continua a indicare il gas come soluzione indispensabile per una lunghissima fase di transizione. Cosa per nulla vera, quando è noto che si potrebbe ricorrere, per l’accumulo, agli impianti di ripompaggio idrico nelle centrali idriche esistenti. (E nelle altre che potrebbero farsi).

Se non si fa lì è, di nuovo, per via di calcoli di convenienza aziendale delle due grandi partecipate italiane, in questo caso dell’Enel che detiene il monopolio di queste e di altre centrali e preferisce continuare col gas, pur nocivo quasi come il carbone.

Più pessimista ancora divento quando vedo fino a che punto si è nell’ultimo periodo intensificata l’attività delle lobby fossili a Bruxelles.

Come forse sapete, da noi in Italia la parola lobby si riferisce all’illecito tampinamento delle ditte private per ottenere da Parlamenti e istituzioni pubbliche quanto chiedono. Non è così nel mondo anglosassone, dove esse hanno piena liceità; nel Parlamento europeo addirittura un riconoscimento ufficiale della loro attività di “convincimento”.

Da uno studio recente fatto a Bruxelles risulta ora che fra il 2019 e il 2020 i lobbisti dell’industria del gas hanno incontrato 163 volte i commissari o i direttori generali dei loro rispettivi dipartimenti. Senza contare il dilagare della triste abitudine del continuo passaggio di funzionari pubblici alle assai più remunerative cariche dei big privati.

“La Commissione – ha dichiarato Michael Blogs, eurodeputato verde tedesco – da un lato dice chiaramente che l’Idrogeno pulito deve essere la fonte del rinnovamento europeo ma dall’altro continua a voler investire su quello fossile”.

Io spero non sia così. Ma penso sia necessario restare vigilanti perché fortissima è, e sarà sempre di più, la pressione internazionale da parte delle big Oli&Gas per continuare a bruciare fossili e sotterrare la CO2, sostenuta anche dalla International Energy Agency.

Sulle energie rinnovabili vengono annunciati progetti, ma non c’è dubbio che persiste una sottovalutazione delle loro potenzialità, e dei vantaggi anche in termini economici che il ricorso a queste fonti può dare.

Lo stesso piano per l’eolico off shore, che con tutto il mare che abbiamo potrebbe rappresentare una enorme risorsa (quello off shore nel nord Europa già occupa 75.000 lavoratori), e invece nel nostro Piano viene, almeno per ora, considerato semplice “sperimentazione”.

Bisognerà vigilare affinché l’eolico non venga invece sviluppato a terra dove, almeno in Italia, c’è pochissimo vento e dunque serve a poco.

Preoccupante, nell’intervista del ministro della transizione, è anche quanto dice a proposito dei controlli che verranno esercitati nell’affidamento e esecuzione dei progetti.

Sin dall’inizio c’è chi invoca – Confindustria in primis – la velocità dei controlli che certo ci vuole ma a condizione di tener a mente i disastri prodotti dall’ansia dello “sbloccacantieri” (nessuno sembra tener a mente quello, pur recentissimo, causato proprio dall’assenza di controlli, del Ponte Morandi).

Preoccupante anche in questo caso per via dell’ambiguità e delle reticenze. Perché si continua a parlare di una sorta di super commissione di verifica creata ad hoc per il Recovery (vi accenna sia pure con qualche vaghezza la citata intervista di Cingolani) che dovrebbe rimpiazzare la qualificatissima commissione già esistente nel Ministero dell’ambiente e che eventualmente potrebbe esser rafforzata ma non sostituita. (Ne ha parlato sul manifesto del 29 scorso Silvio Greco). Perché?