«Resistere dagli scogli contro ogni frontiera». Lo striscione sventola ancora vicino ai Balzi rossi, a due passi dal confine di San Ludovico, tra Ventimiglia e Mentone.

Sulla scogliera è rimasta qualche tenda con qualche materassino, ma il grosso dei migranti che staziona lì dal 12 giugno si è spostato sotto la pineta. Le grandi arcate che si ergono sotto il ponte dell’autostrada ospitano un accampamento improvvisato ma ben allestito dal presidio permanente No Border. La «bolla di Ventimiglia», l’hanno definita gli attivisti: uno spazio autogestito e condiviso, fuori dalle regole feroci e contorte che determinano l’esclusione. Un «non luogo» di rifugio e denuncia per le centinaia di migranti che cercano di passare la frontiera.

Da queste parti, il loro viaggio si trasforma spesso in un «ping pong umano» tra le due polizie di confine, dettato dal Trattato di Chambery (che regola i respingimenti tra Italia e Francia dal 1997) e da quello di Dublino (2003), che vieta di presentare domanda d’asilo in più di uno stato. Nessuno vuole certificare il passaggio di un migrante per evitare di doverselo tenere sul proprio territorio.

Chi viene preso, anche dopo aver passato il confine francese, è così riportato indietro alla frontiera alta di San Luigi, messo nei container che servono da prigione temporanea, in attesa di verificare se – da uno scontrino o da un biglietto del treno – si possa trovare una traccia di provenienza dall’Italia per rispedirlo a Ventimiglia. E lì la partita ricomincia…

Nei magazzini adiacenti la stazione della cittadina di frontiera, è ospitato oltre un centinaio di migranti che ogni giorno prova ad andarsene: affidandosi ai passeurs o alla fortuna. Il sindaco di centrosinistra, Enrico Ioculano, ha chiesto l’intervento del ministro Alfano e ha emesso un’ordinanza che vieta di distribuire cibo per strada. L’unica deputata a farlo è la Croce Rossa, che però non va più al Presidio permanente.

Quelli che continuano a farlo, vengono multati: è successo alle associazioni caritatevoli di Nizza, legate ai Fratelli musulmani, e rischia di succedere agli attivisti, che ogni giorno sostengono la vita del campo.

Nel presidio, funziona un forno con le ruote: «lo stesso – dice Pasquale – che abbiamo portato al G8 di Genova». E poi una cucina da campo, un piccolo media-center e un laboratorio medico, visitato settimanalmente da Medecins Sans Frontières. Ma le altre associazioni italiane – afferma Ines – latitano. Funzionano anche corsi di lingua e di arte-terapia. Sui pannelli intorno, ci sono i disegni dei migranti.

«Se a Ventimiglia come a Mentone nessuno vuole prendere le impronte ai migranti, è solo un bieco calcolo politico» affermaGianni, uno degli attivisti del presidio. E denuncia «le pressioni della polizia» che staziona sul marciapiede di fronte alle tende «e rende impraticabili i due bagni chimici», e il costante pericolo di sgombro.

Questa volta, però, i migranti hanno deciso di resistere, creando un insolito precedente. Seduti sul muretto della passeggiata, seguono il percorso di una Limousine o di qualche Ferrari rallentato dalla presenza delle auto usate dei militanti, che servono da rifugio durante la notte. Siamo a due passi dal ristorante dei Balzi Rossi, dove una cena costa almeno 300 euro. I migranti si chiamano Tom, Hassan, Mohammed. Quasi tutti vengono dal Sudan. Le storie che raccontano si assomigliano: in fuga da guerra e miseria, in un viaggio verso la Libia e poi sui barconi per l’Italia. Un esodo di due o tre anni che ne ha segnato l’adolescenza, come nel caso del sedicenne Tom.

«All’ospedale di Imperia abbiamo curato una ragazza eritrea, di cui non sappiamo niente perché non parla inglese né arabo, ma ora che ne sarà di lei?», dice il segretario provinciale di Rifondazione comunista Mariano Mij, che è medico. Il pericolo, per le migranti, è anche quello di cadere nelle mani di trafficanti senza scrupolo che servono le mafie di frontiera, e che sono venuti davanti al presidio a minacciare gli attivisti. «Oltre tre mesi fa» racconta Maria, «un gruppo di africani si è accampato sugli scogli e con quel gesto ci ha messo di fronte al vero volto dell’Europa, alla sua incapacità di trovare risposte ai disastri che produce con le guerre e le politiche neo-coloniali. Per i migranti, oggi, ogni divisa è una frontiera. Qui si è creata una comunità meticcia in cui siamo tutti in transito, e in cui sta maturando una forte consapevolezza».

Sono molte le ragazze, attiviste giovanissime come Maria o Deborah, arrivate dalle Marche e dalla Toscana. Andrea, invece, arriva da Roma. Il 10 agosto, ha partecipato a un momento di resistenza dei migranti, che è costato un foglio di via per tre anni a sei attivisti, italiani e francesi.

«Un centinaio di africani – racconta Andrea – è partito in treno da Ventimiglia e si è rifiutato di scendere alla frontiera. Tutti si sono fatti trascinare fuori uno a uno e si sono stesi sui binari, resistendo alle percosse e agli insulti. Ho fatto anch’io quel percorso in treno. Nei pressi della frontiera con la Francia, arriva una voce dagli altoparlanti che dice: “Ora le porte verranno chiuse dall’esterno e saliranno gli agenti per i controlli”. Poi, vengono controllati i documenti solo a tutti i passeggeri che hanno la pelle scura…».

Valerio, un portuale di Imperia, è stato presente al Presidio fin dall’inizio. Racconta che, il 10 agosto, i migranti hanno avvertito gli attivisti dal treno. E che in molti sono corsi a portare la propria solidarietà: «Noi facevamo battiture dall’esterno, loro rispondevano dai container dove poi li avevano rinchiusi».

E Maria aggiunge: «Mentre la polizia cercava di aprire il nostro cordone per portare i migranti nei container, abbiamo cercato di stenderci per terra, per impedire il passaggio delle macchine. Abbiamo parlato con la gente, chiedendo loro di tornare indietro come piccolo gesto di solidarietà, e in molti ci hanno ascoltato».

Al Presidio No Border è arrivato anche il segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero: per portare il suo appoggio alla «bolla» autogestita. «Ogni giorno i telegiornali fanno dei migranti un capro espiatorio. E così la destra è diventata egemone nel costruire un immaginario collettivo: dobbiamo ribaltarlo. Questo presidio è la prova di come si potrebbero risolvere le cose» sostiene.

E ieri, migranti e attivisti hanno ricordato la morte del piccolo Todor Bokanovic, ucciso dalla polizia il 20 agosto 1995, mentre i suoi genitori cercavano di passare la frontiera franco-italiana di Sospel. «Ogni giorno – spiega Vick, militante anarchico francese – la polizia uccide nelle banlieue. dobbiamo creare un coordinamento stabile: per dire no alle frontiere e allo stato di polizia».