La guerra civile non dà scampo alla Siria, mentre si impenna il numero di rifugiati nei Paesi vicini: secondo Unhcr e Unicef, il numero di siriani fuggiti dal Paese ha superato i 2 milioni e mezzo. Oltre un milione sono minori, di cui 740mila bambini sotto gli undici anni.
Ma a richiamare l’attenzione regionale e mondiale non sono né vittime civili né rifugiati. Gli occhi della diplomazia internazionale – e gli interessi degli attori in campo – sono fermi su Ghouta, quartiere orientale di Damasco, teatro martedì di un vero e proprio massacro. Secondo le opposizioni i morti sarebbero stati 1.300, uccisi dal gas nervino contenuto nei missili sganciati dal regime di Bashar al-Assad. Un’accusa che Damasco ha rispedito al mittente, ma che ora potrebbe trasformarsi nell’atteso pretesto per un intervento esterno.
Ieri il presidente statunitense Barack Obama ha espresso «grande preoccupazione» per il potenziale utilizzo di armi chimiche contro la popolazione civile e quindi l’eventuale superamento della «linea rossa» tracciata mesi fa da Washington: «Stiamo raccogliendo informazioni sull’evento», ha detto Obama in un’intervista, tirando in ballo la comunità internazionale. Alla Cnn il presidente ha chiaramente affermato di non voler procedere a un intervento esterno senza un mandato dell’Onu (e quindi di una coalizione internazionale), aggiungendo che i costi per il suo Paese sarebbero difficilmente accettabili dal contribuente americano: «Penso che il popolo americano si aspetti che da presidente io tenga conto dei nostri interessi nazionali di lungo termine».
Ovvero evitare di restare «impantanati in situazioni molti difficili e coinvolti in interventi molto costosi che potrebbero generare maggior risentimento nella regione».
Il segretario di Stato, John Kerry, insieme al ministro degli Esteri russo Lavrov – da tempo impegnato nel tentativo di tutelare il presidente siriano Assad e farlo rientrare in un’eventuale transizione politica – si è limitato a chiedere alle Nazioni Unite un’indagine immediata e attenta dell’attacco di Ghouta. Mosca, che ha subito etichettato l’attacco come «un’azione premeditata» delle opposizioni siriane, ha poi fatto appello ai gruppi armati perché garantiscano la sicurezza degli investigatori Onu, entrati in Siria martedì per indagare sull’utilizzo di armi chimiche da parte del governo.
Non è solo Mosca a mettere in dubbio la veridicità dei fatti. Diversi osservatori nei giorni scorsi hanno espresso perplessità in merito all’uso di gas nervino: analizzando i video e le foto pubblicate su internet, esperti come Paula Vanninen, direttrice dell’Istituto finlandese per la Verifica della Convenzione sulle Armi Chimiche, e John Hart, capo del Chemical and Biological Security Project dell’Istituto Internazionale per la Pace di Stoccolma, hanno sottolineato l’assenza di alcuni sintomi tipici dell’esposizione ad armi chimiche e la mancanza di speciali precauzioni e protezioni da parte dei soccorritori.
E se Washington continua a non sbilanciarsi, a parlare per l’amministrazione Obama è la Cia. Secondo il quotidiano francese Le Figaro, team dell’intelligence americana sono entrati in Siria per addestrare e impartire ordini diretti e strategie militari ai gruppi di opposizione: «Secondo le nostre fonti – si legge nel servizio de Le Figaro – i ribelli, supervisionati da commando giordani, israeliani e statunitensi, si stanno muovendo da alcuni giorni verso Damasco». Sarebbero 550 i miliziani in marcia, secondo il giornale israeliano Debka File.
Da mesi circolano notizie di campi di addestramento congiunti americani e giordani, dove le forze militari dei due Paesi stanno preparando squadre di ribelli anti-Assad. La prova di un intervento indiretto nel conflitto: gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di inviare truppe in territorio siriano, ma addestrano e riforniscono di armi i ribelli, allontanando costantemente la fine naturale della guerra civile. Probabilmente, senza il fondamentale sostegno militare ed economico degli Usa e dei Paesi del Golfo, le truppe governative di Assad avrebbero sconfitto da tempo le forze di opposizione, frammentate a livello politico e religioso e poco radicate, spesso formate da miliziani provenienti dall’estero.