La vicenda di Julia Zaher, l’imprenditrice palestinese di Nazareth, che ha donato fondi all’associazione israeliana ebraica The Aguda per i diritti Lgbtq escludendo le ong e le organizzazioni arabe che lavorano sullo stesso terreno, ha sollevato molte polemiche ma è servita a puntare i riflettori sui progressi fatti così come sulla lunga strada ancora da percorrere nella società palestinese – in Israele e nei Territori occupati – sull’omofobia e i diritti di omosessuali, trans e queer. E ha posto con forza l’accento sulla questione del “pinkwashing” israeliano. Ne abbiamo parlato con Ghadir Shafie, direttrice di Aswat-Palestinian Feminist Center for Gender and Sexual Freedoms.

Il lavoro di Aswat in questi giorni ha una maggiore visibilità. A che punto siamo?

Contestualizziamo il tema. Occorre tenere presente, sempre, che i palestinesi, sono un popolo oppresso da decenni, soggetto anche ad occupazione e colonialismo di insediamento. Di fronte a ciò si sono posti in “modalità di sopravvivenza”. Questa condizione ha ridotto lo spazio per affrontare con serenità la questione dei diritti civili e dell’individuo. In sostanza la nostra gente o gran parte di essa pensa che venga prima la libertà come popolo e poi gli altri diritti. La questione Lgbtq fino a poco tempo fa non era neppure sul tavolo.

E ora?

Si sono fatti progressi, nel rispetto della priorità della lotta nazionale. Noi (attivisti) abbiamo compreso che parlare solo di sessualità non può funzionare in queste circostanze. Questo tema fondamentale va inserito in una campagna ampia di diritti da raggiungere, assieme alla battaglia delle donne contro il sessismo, la discriminazione e la società conservatrice, e alla lotta contro l’apartheid di cui è vittima in varie forme il nostro popolo. Parlo di una resistenza complessiva contro ogni forma di oppressione in cui è diventato rilevante, per un numero crescente di palestinesi, combattere l’omofobia e promuovere i diritti Lgbtq. Ed è ciò che stanno facendo anche altre associazioni e organizzazioni palestinesi in Israele e nei Territori occupati. Abbiamo saputo portare le nostre lotte su di un piano internazionale, rendendole visibili al mondo. Inclusa la questione Lgbtq. E registriamo un aumento del sostegno globale a tutti i diritti del nostro popolo.

Sono stati tagliati traguardi sul piano internazionale. Però sul terreno quali passi concreti in avanti si sono fatti

Abbiamo rotto più di un tabù e aperto il dibattito sull’orientamento sessuale e l’identità di genere in Palestina. Non sto ingigantendo i risultati positivi, mi rendo conto che siamo solo all’inizio di un percorso lungo e tortuoso e che l’omofobia sia ancora lì. Qualche giorno fa, ad esempio, abbiamo dovuto ingoiare l’astensione di alcuni parlamentari arabi alla Knesset sulla legge che respinge l’idea di terapie mediche e psicologiche per i gay che purtroppo troppi considerano ancora come degli ammalati. Però è un dato di fatto, oggi tra i palestinesi se ne parla di più, specie sui social dove si leggono più post sul tema. Le reazioni di rifiuto, spesso per motivi religiosi, sono ancora significative ma aumentano giorno dopo giorno i favorevoli ai diritti Lgbtq, soprattutto tra i giovani. Abbiamo spostato la questione dai margini al centro, ne discutono anche in alcuni partiti politici, i media sono più interessati di prima. E sta avvenendo in modo spontaneo, lontano dalle strumentalizzazioni delle autorità israeliane.

A che cosi si riferisce?

 

Ghadir Shafie

 

All’estero si ha una idea ben diversa ma la società israeliana, nonostante l’esistenza di certe leggi in materia, non è avanzata su questo tema come si vuol far credere. Anch’essa è in parte omofoba e in questi anni non sono mancati attacchi violenti ai gay. Ciò nonostante viene descritta come protettrice dei diritti Lgbtq palestinesi. Se sei gay, è lo slogan, vieni a Tel Aviv e sarai libero. Ma, spieghiamo noi, se non lo sei allora resterai oppresso. Tutto ciò è inaccettabile. Ecco perché la battaglia per i diritti Lgbtq palestinesi deve essere dei palestinesi e non di Israele. Pochi ne hanno parlato ma Aswat, un’altra organizzazione, al Qaws, e varie associazioni hanno organizzato l’anno scorso una grossa iniziativa palestinese Lgbtq che ha riscosso molto interesse. Sappiamo cosa fare, come muoverci e rifiutiamo il pinkwashing.

 

 

 

Cosa intendete per pinkwashing?

L’uso da parte di Israele dei diritti Lgbtq per promuovere nel resto del mondo l’idea del piccolo Stato “paradiso” per la comunità Lgbtq che protegge e salva i gay palestinesi dalla stessa società palestinese. Si tratta di una strumentalizzazione politica e sociale che ha come obiettivo quello di rappresentare i palestinesi come rozzi barbari e di nascondere sotto il tappeto le violazioni dei diritti umani che compie Israele. (Il premier) Netanyahu nei suoi discorsi pubblici in Israele non fa riferimento ai diritti dei gay perché una porzione ampia della società israeliana è contraria, specie i religiosi.

Però ne parla copiosamente quando va negli Usa o in Europa, per affermare quanto siano arretrati gli arabi e quanto sia avanzato Israele. Questo è il pinkwashing. Ripeto, l’omofobia resta un problema serio nella nostra società ma lasciatelo risolvere a noi, ci stiamo lavorando, non abbiamo bisogno di strumentalizzazioni. Gruppi di ogni parte del mondo appoggiano i diritti, tutti i diritti, del popolo palestinese. Purtroppo governi ed istituzioni internazionali continuano a sostenere solo organizzazioni come The Aguda legate alle politiche dei governi israeliani e ad ignorare quelle palestinesi. Dovrebbero sapere che ci viene impedito di andare nelle scuole arabe a promuovere tra i ragazzi i diritti Lgbtq. Non appena usiamo nei nostri progetti la parola “palestinesi” le istituzioni statali (israeliane) ci chiudono porta in faccia.