Nello scenario metafisico del Teatro Bibiena va in scena il recital in solo per chitarra e pianoforte di un brasiliano atipico e monumentale. Il settantunenne compositore, figlio di una siciliana e di un libanese, è un ibrido unico tra influenze classiche, lo sconfinato patrimonio musicale brasiliano e le tradizioni indigene della selva amazzonica. I mondi della musica popolare e della musica seria in lui si toccano, si fondono e si confondono, la iteratività di un ritmo mutuato dal berimbau o dal cavaquinho suona colta e primitiva allo stesso tempo. La sua intuizione è la medesima di Leo Brouwer, il grande chitarrista cubano che univa il mondo delle danze di discendenza africana con gli spartiti del conservatorio. Cresciuto studiando musica classica, per poi spostarsi a Parigi dove studierà composizione con Jean Barraqué, allievo di Schoenberg e Webern, Egberto Gismonti suona musica popolare brasiliana come avrebbero potuta pensarla Ravel e Debussy: armonie nitide ed oblique, eppure sempre cantabili, mosse da un respiro ampio, naturale, che fioriscono su strutture ritmiche mobili e dotate del respiro di una suite e di quel quid imprendibile del Brasile profondo.

DANZE DI SCHIAVI, canzoni d’infanzia, le dieci corde di una chitarra aerea e parlante che si trasfigurano per farsi arpa, tamburo, giocando in perfetto equilibrio tra i bassi cavernosi ed il cielo degli armonici. In alcuni frangenti pare quasi di ascoltare uno Steve Reich ad un carnevale carioca, in un gioco di astrazioni e specchi tra la terra del sertao, la marea che porta a riva echi di Africa, e le ansie metropolitane di città estreme come Rio de Janeiro ( per qualcuno la città più brutta del mondo nel posto più bello del pianeta ) o San Paolo. Gismonti ha imbracciato la chitarra a ventuno anni ed è cresciuto inizialmente da autodidatta, sviluppando così uno stile del tutto peculiare, un fiume melodico percussivo nel quale confluiscono tutte le influenze già citate: tra momenti di lirismo puro come Bianca,dedicata alla figlia, da Duas Vozes del 1984, in coppia con Nana Vasconcelos e riarrangiamenti dal capolavoro Folk Songs con Jan Garbarek e Charlie Haden, il concerto lascia la sensazione di aver ascoltato la voce di un Maestro.

NON A CASO verso il finale ci sono due versioni di altri due giganti del paese dell’Ordem e Progresso, avviato probabilmente verso un baratro con il fascista Bolsonaro, probabile vincitore delle elezioni ( ma speriamo davvero che i sondaggi siano sbagliati , e non sarebbe la prima volta ) : Retrato em branco e preto di Tom Jobim ed un pezzo di Heitor Villa-Lobos, che nel suo peregrinare tra orchestra e radici ha in qualche modo precorso il mondo ascoltato qui. Un mondo che, in tempi di razzismo e respingimenti, è un invito all’accoglienza, all’incontro, al sentire l’altro: “Tutte le culture europee e quelle indigene sono parte della nostra cultura”, ha detto in tempi non sospetti Gismonti, ed infatti, nonostante sia forte il tentativo di volerne cancellare la natura reale, il Brasile è un paese che, al netto di stridenti contraddizioni e gravissimi drammi sociali, resta intimamente, storicamente meticcio: Egberto ha portato la voce degli indios negli auditorium, come forse Lula aveva dato finalmente rappresentanza ai sem terra. Dedicato al ricordo di Wes Montgomery, e quindi incentrato principalmente sulla chitarra, il Mantova Jazz 2018 proseguirà con altri appuntamenti, tra i quali segnaliamo l’11 novembre l’ottetto di Mary Halvorson, già pupilla di Anthony Braxton, ed il 24 novembre il Pat Martino Trio.