Premessa. Questo viaggio nasce da un libro dal titolo Bassure, una raccolta di racconti del premio Nobel Herta Müller nel 1982. Bassure è dedicato alle storie vissute e immaginate durante l’infanzia della scrittrice rumena nel villaggio di Nitchidorf. Sono storie che raccontano una comunità. Le foto che ho scattato sono ciò che ho trovato qui ricercando le immagini, le atmosfere e le sensazioni che ho visto e provato leggendo quel libro: «A volte il paese ha paura della sua gente. Il paese diventa sgradevolmente bello. Il paese non ha più un centro, e la calura spinge il crepuscolo negli orti e li gonfia. Le erbe selvatiche chiudono i loro fiori luminosi e gialli». Prima di partire per il villaggio sapevo, tuttavia, che avrei visto un posto diverso da quello raccontato dalla Müller, con altre persone, naturalmente, gente con nuove abitudini e nuovi costumi. Pensavo che avrei trovato altri dettagli, altri odori e altri suoni, ma ero sicura che qualcosa era rimasto come quando Herta era bambina.

Nitchidorf, millecinquecento abitanti, regione del Banato, Romania. Un’ora da Timisoara. La Ford rossa su cui viaggio attraversa piccoli villaggi sull’unica strada percorribile. Una strada lunga, in pianura, dove ho incrociato non più di un paio di macchine e qualche furgone, una decina di negozietti, qualche rom col suo carretto trainato da un cavallo esausto, cinque o sei passanti, e poi più nessuno. Allontanandomi dalla città, vedo il paesaggio diventare rurale: piccoli appezzamenti di terreno, frazioni quasi del tutto disabitate, terra nuda. Poi un’indicazione stradale: Nitchidorf.

IL VILLAGGIO, così come gli altri in questa regione, è stato abitato da persone di lingua tedesca sin dalla fine del XIX secolo, quando la zona cade sotto il dominio dell’impero austro-ungarico. La tradizione tedesca, però, col tempo s’indebolisce, i vecchi muoiono e le nuove generazioni pensano al Consorzio di produzione agricola e al Consiglio del popolo. Con la fine del comunismo, poi, e l’apertura delle frontiere, gli abitanti (in particolar modo proprio quelli della comunità di Nitchidorf) partono per la Germania lasciando le case agli stranieri più poveri provenienti soprattutto dall’Ucraina e dalla Moldavia, che si trasferiscono qui per trovare un futuro migliore. Alcuni sono rom, hanno cavalli e carretti, si occupano di piccoli trasporti, che la gente chiede. Altri vengono da varie regioni della Romania, lavorano la terra o sono operai.

MOLTE CASE del villaggio sono fatiscenti, alcune non hanno il pavimento. Le stanze sono appena illuminate da un tenue bagliore di lampadine e sono spesso abitate da più persone, che a volte condividono anche lo stesso letto. La struttura del villaggio, l’incastro ordinato di strade, case e giardini, ricalca quella tipica tedesca, solo più povera. Le case basse, a un solo piano, colorate a tinte forti o pastello, portano sulla facciata la data di costruzione e il nome della famiglia che le abitava. Tutte hanno un pezzo di terra, a volte coltivato, a volte ben curato e circondato da vasi di fiori, a volte del tutto abbandonato.

IL PAESE SI STA SVUOTANDO. I giovani non riescono a trovare un motivo di speranza per il loro futuro. Dalle loro auto parcheggiate ai bordi della strada, con lo sportello aperto, ascoltano musica americana ad alto volume mentre bevono birra sperando di poter sfuggire alla noia del villaggio, dove se hai fortuna fai il contadino o il poliziotto, ti sposi e fai figli.

Loro, figli del post-comunismo, vogliono di più. Credono che altrove la vita sia migliore e si guadagnino soldi facili. Alcuni restano, ma sono pochi, gli altri se ne vanno a Timisoara o tentano la sorte all’estero. Chi rimane conduce una vita fatta di tempi lunghi e strumenti arcaici, dove l’economia contadina è appena sufficiente per il sostentamento familiare.

Non ci sono più né l’ufficio postale, né il barbiere. La ferrovia è abbandonata, restano solo le rotaie divorate dalla vegetazione. Del mulino è rimasto lo scheletro, delle feste danzanti un ricordo sfocato. «Ogni sabato sera si ballava, le donne si raccoglievano i capelli a crocchia e tiravano fuori dagli armadi gli abiti tradizionali: gonne ampie di cotone sulle quali indossavano un grembiule scuro. Noi uomini ci sfilavamo i vestiti da lavoro e ci mettevamo i pantaloni di panno, la giacca corta e nera e il cappello col pennacchio alla tedesca». A parlare è Robert Müller – qui le persone di origine tedesca si chiamano Müller, Wolf, Helmbeck. Robert è un contadino, nato e cresciuto a Nitchidorf, racconta il passato con malinconia, rimpiange il tempo in cui si stava insieme e si socializzava: «Ora ognuno si chiude nella propria casa, si esce poco, ci si saluta a malapena». È cattolico, in casa parla tedesco, ma non lascerebbe mai il villaggio per andare a vivere in Germania: «Ci sono andati i miei figli, io sono nato qui e qui voglio morire».

JOSEF KRADI, nato nel 1930, siede su una vecchia sedia in camera da letto. La sua testa è piena di ricordi: «Portavo il carbone e la legna, quando moriva qualcuno trasportavo la cassa fino al cimitero. Agganciavo il carro al mio cavallo e guidavo il corteo funebre». Ora vive solo, l’unico figlio che ha vive in Germania e non torna mai al paese. «Ho amato due donne nella mia vita, le ho sposate e seppellite entrambe. A mancarmi però è solo la prima. Ogni mattina vado da lei al cimitero, ci vado presto, la saluto, mi faccio il segno della croce e rientro a casa».
L’identità del villaggio è disgregata, la comunità è dispersa. «Sono sempre impegnata, lavoro il campo da sola e riesco a sfamare tre famiglie, la mia e quelle dei miei due figli», dice Maria Tega, 79 anni, emigrata dalla Russia dopo la rivoluzione. Vive in una casa dipinta di verde ai margini del paese. Parliamo in cucina, mentre lei lava i piatti, scalza, con un fazzoletto a fiori annodato sulla testa: «Non mi piace uscire – dice – me ne sto a casa, non conosco più nessuno e mi faccio gli affari miei, come tutti d’altronde».

DELLE STORIE raccontate da Herta Müller è rimasto l’odore di terra ed erba, le rane che saltano nelle pozzanghere, il granturco che cresce nei campi. Restano vecchie foto di matrimoni in bianco e nero, uomini dalla scriminatura netta e baffi alla tedesca e donne dai vestiti larghi che spazzano i cortili. Rimangono le mani rugose, il sudore di chi lavora nei campi e la paura dei cani randagi. Rimane il cimitero, col cancello cigolante, la croce al centro e le tombe divise in due zone: a destra quelle dei tedeschi e a sinistra quelle dei rumeni. «Tutti i morti a parte la macellaia – scrive Herta – giacciono, o, come si dice in paese, riposano in tombe. I morti del paese hanno mangiato fino alla morte e hanno bevuto fino alla morte e cioè, come si dice in paese, hanno sgobbato fino alla morte. Un’eccezione sono gli eroi, di cui si presume che abbiano combattuto fino alla morte. Suicidi in paese non ce ne sono perché tutti gli abitanti del paese sono dotati di buonsenso che non perdono neanche in età avanzata».

GUARDO FUORI dalla finestra dalle tende color lilla. Il sole è caldo e mi ferisce gli occhi, i campi intorno affogano nella luce e i gatti dormono nei coni d’ombra. Penso ai giorni passati qui, agli incontri fatti, alle emozioni provate. Penso all’odore di zuppa, ai bambini che giocano per strada, alle mucche piene di latte tornare dai campi al tramonto.

Poi vedo una Ford rossa svoltare la curva davanti casa. È l’auto che mi ha portata qui. Si ferma davanti al cancello. Sono pronta. Esco, chiudo a chiave la porta e salgo in macchina. «Il paese è trasparente e lungo e sottile – scrive ancora Herta – e ci si vede attraverso, anche le case, i recinti e gli orti, anche la gente assomiglia a strade vuote. Dappertutto si può vedere attraverso, passare attraverso e penetrare con la mano». E io, in qualche modo, attraversando il paese, credo di averlo ascoltato, di averne sentito l’odore e, in trasparenza, di averlo guardato.