Dobbiamo a un autore della tarda classicità, un certo Salustio, la più concisa e al tempo stesso più completa definizione del mito: un racconto di «cose che non sono mai accadute, ma che esistono sempre». Gli ha fatto eco assai più tardi Thomas Mann, quando ha definito il mito uno «schema senza tempo». Più recentemente un grande studioso del mito – tra l’altro concittadino di Mann -, Hans Blumemberg, ha scritto che il mito si dà come perpetua «memoria dell’immemoriale».
Si capisce perciò perché i miti non possono morire. Non possono e, diciamocelo pure, non vogliono. E dimmi che non vuoi morire: il mito di Niobe, è appunto il titolo – provocatoriamente ma felicemente pop – di una mostra visitabile fino a domenica nel Santuario di Ercole Vincitore a Tivoli. Niobe era la sposa di Anfione, re di Tebe, con il quale aveva generato 7 maschi e altrettante femmine. Insuperbita da tanta prole, aveva offeso Latona, rinfacciandole di avere partorito solo due figli, Apollo e Artemide. Furiosa per l’affronto, Latona chiese ai suoi divini gemelli di vendicarla. Detto fatto: prima Apollo uccise con le sue frecce i 7 figli maschi, poi Artemide fece lo stesso con le femmine. Niobe, la sola a essere risparmiata, fu «pietrificata» dal dolore. Racconta Ovidio nelle sue Metamorfosi che la roccia in cui si tramutò fu trasportata da un turbine in Frigia, dove «tuttora il marmo stilla lacrime».

LA VICENDA incontrò notevole fortuna nell’antichità, tanto in letteratura (ne parla Omero ma ne trattarono, tra gli altri, anche i tre grandi tragici in opere che purtroppo non si sono conservate) quanto nelle arti figurative. Ci sono arrivati, più o meno integri, diversi gruppi scultorei che raffiguravano il drammatico eccidio. Il tema si prestava a composizioni molto spettacolari, specialmente se le varie figure erano dislocate prospetticamente nello spazio.
Il recente recupero di uno di questi gruppi è all’origine della mostra. Ben sette statue riferibili a Niobe e ai suoi figli furono rinvenute nel 2012 a Ciampino, alle porte di Roma. Decoravano la piscina di una villa che lo scavo ha dimostrato appartenere a un personaggio di spicco, Messalla Corvino, che fu console insieme a Ottaviano e con lui prese parte alla battaglia di Azio (31 a.C.). Messalla è noto anche per essere stato – come il suo contemporaneo Mecenate – l’animatore di un cenacolo di poeti che comprendeva personaggi del calibro di Tibullo e Ovidio. Chissà se non furono proprio i versi ovidiani a suggerire al padrone di casa la scelta di quelle sculture, o se ad esse magari non si ispirò il poeta.

IL TERRENO ACIDO che per secoli le aveva coperte aveva corroso fortemente il marmo. Solo dopo un complesso lavoro di restauro, conclusosi quest’anno, si è potuto finalmente presentarle al pubblico. Ed è una felice coincidenza che ciò accada nella ricorrenza del bimillenario della morte di Ovidio.
Questo è anche il primo evento espositivo organizzato da Villae, l’istituto autonomo del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali che gestisce tre gioielli tiburtini: Villa Adriana, Villa d’Este e il Santuario di Ercole Vincitore. Se i primi due monumenti sono arcinoti, lo stesso non si può dire del terzo. La mostra è l’occasione per scoprire uno dei più significativi esempi dell’architettura romana tardo-repubblicana (disposto scenograficamente su terrazze, e con coordinamento assiale tempio-teatro, come nel santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina) e anche un interessantissimo monumento di archeologia industriale.

NELL’OTTOCENTO sulle sue strutture si installarono prima una fonderia di cannoni, poi degli impianti idroelettrici (grazie ai quali Tivoli fu la prima città italiana a essere illuminata dall’energia elettrica) e infine una cartiera (rimasta in attività fino alla metà del secolo scorso). Proprio nei locali dell’ex cartiera è stato realizzato l’antiquarium che al momento ospita la mostra, curata da Andrea Bruciati, lo storico dell’arte chiamato a dirigere il neonato istituto, e da Micaela Angle, archeologa di lungo corso, responsabile del Santuario di Ercole Vincitore. Ma vi hanno collaborato molti altri validi specialisti, come Davide Bertolino e Lucilla D’Alessandro.
Oltre a presentare delle opere inedite, preziose per riaffrontare annosi problemi iconografici e cronologici relativi al gruppo originale di cui esse sono copie, la mostra ha un’ambizione non sottaciuta: esplorare il mito in oggetto dal punto di vista culturale, psicologico, antropologico e rileggerlo alla luce della sensibilità moderna.

QUAL ERA IN SOSTANZA il significato del mito di Niobe per gli antichi? Che a causa di un’arroganza insensata anche un regno floridissimo poteva precipitare nella rovina. La principale conseguenza della strage è infatti il totale eradicamento della discendenza dei regnanti, l’interruzione della linea ereditaria del genos: un evento considerato una iattura in tutte le società arcaiche e tradizionali. Ma l’eccidio dei Niobidi e la successiva trasformazione in roccia della mater dolorosa ha anche altre implicazioni. Il mito sembra asseverare che esiste nei figli una coazione a ripetere le colpe dei genitori. Non va dimenticato infatti che Niobe è figlia di Tantalo, un uomo amato dagli dèi, che lo ammettevano alla loro mensa, ma che egli offese – lo narra Pindaro – rubando il cibo riservato agli immortali per farsi pari a loro: la hybris della figlia non è dissimile da quella del padre. Anche lei volle travalicare la sua natura umana, pretendendo che i tebani tributassero a lei il culto che fino a quel momento hanno tributato alla divina Latona, a cui si proclamava superiore. Walter Benjamin, che consacrò un denso saggio al mito di Niobe, vide nella sorte finale del personaggio una trasparente simbologia: la roccia in cui si trasforma è come un horos, un cippo di confine che marca la frontiera invalicabile tra uomini e dèi.

SI INDIVIDUA qui un altro profondo insegnamento del mito. C’era stato un tempo in cui uomini e dèi convivevano. Tantalo banchettava con le divinità dell’Olimpo e la stessa Niobe – lo attesta un frammento di Saffo – era stata hetaira (compagna, forse anche amante) di Latona. Ma l’eccessiva vicinanza col divino è un male per gli uomini, perché fomenta in loro tentazioni pericolose. Quello stato di cose doveva cessare. Il mito fornisce una giustificazione narrativa di questa cesura ontologica.
Colpisce peraltro nella vicenda di Niobe la spietatezza della vendetta divina. A fare le spese della tracotanza della madre sono dei fanciulli innocenti: una teodicea davvero inquietante. Eppure il mito ha sempre una funzione terapeutica, consolatoria. Nella misura in cui erige un argine contro il caos, ci aiuta a sopportare l’insensatezza della condizione umana, a farci una ragione dei lutti crudeli e della violenza che ci colpiscono.
In continuità tematica col mito di Niobe, la mostra propone una coraggiosa e intelligente contaminazione tra antico e moderno. Vasi magnogreci, sarcofagi romani, ceramiche rinascimentali dialogano secondo studiati percorsi visivi con opere di De Chirico, Savinio (una vera chicca il video di una rara messa in scena della Mort de Niobé di quest’ultimo), Antonietta Raphael, Mario Sironi, Vanessa Beecroft, Giulio Paolini e altri. L’antica strage immemoriale diventa così occasione di riflessione su temi attuali e urticanti come la guerra e il genocidio. E conferma che – come qualcuno ha detto – il mito ha la capacità di trasformare le macerie in monumento.