Torna Nino De Vita dopo il libro Sulità, con una nuova raccolta dal titolo Tiatru (pp.118, euro 12) sempre per Mesogea, casa editrice ormai di riferimento per tutta la sua opera. E torna alla scrittura con profondità di visione e molteplicità di voci che all’apertura di sipario di questo teatro, compaiono e si susseguono, nelle tredici storie-poemetti scritte tutte nel dialetto di Cutusìo.
De Vita in questo libro, riesce a instillare levità poetica a tutto ciò che potremmo chiamare la pesanteur dell’esistenza ai suoi neri accadimenti; levità naturalmente non è leggerezza ma appunto una declinazione di sguardo e visione altra, rispetto a quei fatti che ci passano d’attorno, dentro i quali il poeta appunto riesce a soffiarvi con la sua parola, nuove prospettive e lunghezze d’onda che chiamano nella pagina il lettore a misurarsi ancora una volta. E De Vita per dar senso e forza alla sua scrittura, si è sempre gettato dentro la vita abrasa, da essa ricavando masticandola, distillati esistenziali; perché come dice nello stupendo poemetto finale intitolato Berengario: «…//E pure mi bisognano,/ o Berengario, i fatti,/…». Tiatru fa intendere quanto sia importante l’esperienza nella questione creativa, che proprio da quest’ultima rielaborata, diviene altro nelle pagine che paiono a scorrerle più vere della realtà stessa, quasi la tracimano.

SONO I LIBRI DEL POETA siciliano, anche indirettamente, un laboratorio di insegnamento creativo per tanti che vorrebbero misurarsi col verso ma che non riescono sino in fondo, perché carenti nella loro officina, di quella parte di cui ogni componimento dovrebbe cibarsi: l’abbraccio vitale e disperato con la vita.
In queste tredici storie il poeta compare talvolta, come nei camei che i grandi registri si concedono dentro la pellicola, da spalla ad altri personaggi e con i suoi silenzi, ascolti, le poche parole, fa uscire da queste figure, il più della loro vita. Un tiatru naturale e dell’assurdo in terra di Sicilia potremmo definire questa raccolta, dove le tele delle relazioni finiscono talvolta ambiguamente o sospese non finiscono: «…’E sono pazzo, un pazzo,/ uno senza cervello,/mi hai sentito Ninuzzo’ incalzava ’sono un pazzo’/ mentre io fuggivo,/ fuggivo confuso come /perso». E dove in verità gli offesi, gli umiliati, si palesano al lettore, non nella loro debolezza ma combattivi, innervati di quel quid che li spinge a sussurrare la loro alterità come una ricchezza che deve essere intercettata, non accantonata.
Affiora in uno di questi racconti, persino il grande scrittore Ignazio Buttitta, amico caro del poeta: è colto in un attimo di indecisione nel dialogo con un certo Nazareno, giunto nella sua casa col manoscritto inedito da consegnare e che però non ha i soldi nel momento dei saluti per pagare i libri datigli dal maestro stesso: «…A passo a passo andò,/ se ne andò verso la scala/ del villino, per scendere./ ’Non torna più’ io dissi. ’Torna’ mi disse Ignazio».

NELLA RACCOLTA si riesce a cogliere quell’amore e quella cura per i dettagli, che appaiono e dispaiono come nuvole vaganti dietro i tic di ogni uomo, camminano come doppi fondi tra le loro parole, i loro silenzi. Nell’ultima storia già accennata, dal titolo Berengario, il sentimento del poeta si fa preghiera laica, esortazione, verso quelle parole che sono state il più e il tutto del suo patrimonio artistico più che trentennale; prega lo scrittore, anche addirittura per quelle che gli sono state conflittuali, perché non lo lascino mai, tutte oramai le buone e le cattive a tessere l’architettura del suo mondo in versi. Lontano da loro la solitudine irreversibile e senza appello:«//…Mi bisognano le parole/ a me: a sorsi,/ a boccate, a soffocare./ Le parole che si sono/ perse, che si stanno/ perdendo./ Qui, affrettatevi,/ dico.//…».