«Nino D’Angelo è il nostro Luke Skywalker», dichiarava serissimo Alfredo Stella, visionario distributore napoletano venuto a mancare troppo presto. Ci sarebbe voluto un genio per comprendere in tutte le sue articolazioni mitologiche l’affermazione di Stella che all’epoca poteva sembrare poco più di una boutade paradossale. E invece no. Sottrattosi da subito al lato oscuro della forza, quando cioè le regole non scritte della canzone napoletana celebravano le gesta di uomini che per scelta o per vocazione stavano al di là della legge e di donne che fatalisticamente li aspettavano sempre e comunque, Nino, indossando un jeans e una maglietta, armato solo di popcorn e patatine, ha dato voce a una generazione dimenticata dal resto del Paese (quello che in genere si ferma a Roma) e che per l’altra metà è solo una statistica.
Il concerto per celebrare i suoi 60 anni, partito lo scorso anno al San Paolo di Napoli con uno spettacolo destinato a restare nella storia della musica popolare italiana, è travolgente. L’Auditorium della Conciliazione è gremito dal «popolo delle canzoni» di Nino D’Angelo. Famiglie, bambini, facce operaie, persino hipster in tiro, ragazzine e ragazzi. La tenuta fosforescente del fan club. Le fasce luminose blu strette alla fronte. Le magliette del Napoli e quelle con il caschetto d’oro di una volta. Tute e sneaker. Prima ancora che si abbassino le luci il pubblico urla come se fosse allo stadio «Nino! Nino!». Un boato accoglie il musicista quando si presenta sul palco. E nell’aria è tangibile l’affetto che unisce simbioticamente Nino e il suo pubblico. La band alle spalle di D’Angelo è implacabile e non perde un colpo nonostante qualche piccolo problema nel mix.
Le canzoni sono cantate all’unisono dal pubblico che vive il concerto con un sentire comunitario straordinario. Le persone si muovono; vanno verso il palco, si salutano e si abbracciano felici. I cellulari sono instancabili. Nino D’Angelo però segue una traiettoria precisa. Non si autocelebra e non rivendica. E quando nel camerino, a fine concerto, si scambiano due parole, lui gentilissimo e affettuoso, nonostante le oltre due ore di spettacolo, ricordando i rifiuti e le incomprensioni, dice accompagnandola con una scrollata di spalle: «Prima ci restavo male per le stroncature, adesso non m’importa più…».
Ricordando Marco Ferreri che volle la sua Chisà si me pienze per Diario di un vizio, rievoca sorridendo la telefonata del regista che gli chiede la cortesia di avere la canzone per il film. «E che succede – ride Ferreri che vuole una mia canzone? Io risposi: ’Maestro, ma prendetevi pure tutto il disco! E che dovevo dire? Lui che chiede la cortesia a me?».
E come Luke Skywalker, Nino D’Angelo, a partire dal caschetto biondo e dai ralenti sulle spiagge, ha fatto il suo addestramento supremo da ultimo Jedi della canzone napoletana. E chi, se non lui, può presentare nel corso di una delle sue canzoni più belle, uno stuolo di napoletani famosi fra i quali figura anche Anna Maria Ortese per concludersi con Pino Daniele. Nino D’Angelo unisce galassie all’apparenza lontane rifiutando il ricatto del lato oscuro della Forza che vuole ancora dividere le cose in cultura alta e bassa. D’altronde, ricordando un passaggio di una lettera di Raffaello Matarazzo del 1955 indirizzata a «L’Unità» (riportata in Neorealismo d’appendice a cura di A. Aprà e C. Carabba), il regista affermava: «Il sentimento, secondo me, non è facile né difficile, o c’è o non c’è, o arriva al cuore degli spettatori o non arriva, questo è il problema».
E quando Nino saluta Pino Daniele con una bellissima e commossa versione di Napul’è, le lacrime scorrono senza remore e il pubblico applaude entusiasta. Con in testa ancora le immagini del corteo antirazzista che ha attraversato Roma nel pomeriggio, le cadenze mediterranee di Jesce sole, dove si dice «miette mmiezz’o pane ‘na carezza a cumpagna» e, soprattutto, si chiede «sceta ‘o silenzio pe’ mme», risuonano gonfie di un’utopia tutta ancora da costruire. Nino D’Angelo questa cosa l’ha capita molto tempo fa. Bastava ascoltare.