Nel giorno del solstizio, sospeso tra le suggestioni della mezza estate pagana di elfi e fate e la sacra notte di San Giovanni, Alfonsina Russo, direttore del Parco archeologico del Colosseo, ha voluto la rifunzionalizzazione del Ninfeo degli Specchi sul Palatino.
L’idea, concepita dall’architetta paesaggista Gabriella Strano, mira a recuperare il sentimento del tempo antico sul colle dove risalta con maggior vigore il genius loci di Roma. Città che perfino nei momenti di gloria ha preferito cercare il suo oro nella luce e nell’acqua, piuttosto che nei metalli preziosi.

IL NINFEO fu costruito negli Horti Farnesiani tra il 1563 e il 1577, venti anni prima che Shakespeare desse vita ai sogni di Oberon e Titania. Perché allora, data la confidenza, il classicismo preferiva sorridere. «L’installazione suggerisce giochi dismessi da trecento anni», chiarisce Strano, illustrando il meccanismo evocato: «dall’alto torna a scendere una leggera pioggia, che in principio cadeva dalla Fontana dei Platani attraverso una cupola andata perduta, mentre energici zampilli sprizzano dal bordo della vasca in corten».

La sorpresa fa la sua comparsa di fronte al bacino, dove l’architetta ha resuscitato uno dei tubuli di piombo farnesiani, che si attiverà a intermittenza, con il sottofondo musicale di Corelli, riproponendo lo scherzo rinascimentale degli schizzi a tradimento. Guai a bagnarsi, quindi, a meno che in cielo non arda il sole di mezza estate.
Un’ipotesi di archeologia, questa volta, aliena ai tecnicismi e disposta a misurarsi con i dubbi del pensiero debole: a che serve ai visitatori del 2019 e a che serviva già ai Farnese del Cinquecento la percezione del passato? Semplicemente a rilassarsi, forse, quando non se ne può più di solo negotium.

I FARNESE ridisegnarono l’area della Domus Tiberiana, trasformandola in un acropoli sull’acropoli attraverso la valorizzandone dei salti di quota e la definizione di un perimetro geometrico, costituito da viali retti con quattro mete negli angoli, a imitazione del pomerio di Romolo. Quasi a sancire la seconda fondazione di Roma dopo il Sacco del 1527, vanto che la famiglia di Paolo III poteva permettersi per aver ripreso la fabbrica di San Pietro, nonché affidato a Michelangelo la progettazione del Campidoglio e del più grande palazzo della città.
La razionalità dei viali era vivacizzata da piante esotiche – yucca canadese, passiflora peruviana, agave del Venezuela – e da divertimenti architettonici: tribune, pergolati, uccelliere e ninfei come quello degli Specchi, del quale oltre ai pochi resti sopravvivevano una dettagliata descrizione e i resoconti del 1914 degli scavi di Giacomo Boni.
Satiri con stemmi farnesiani e gli specchi che davano il nome al ninfeo, simili a quelli della Sala del Mappamondo di Caprarola, dovevano essere collocati nelle tre nicchie, il cui sistema idraulico con getti dal basso ricorda quello della fontana delle Civette a Tivoli.
«L’architetto potrebbe essere Pirro Ligorio», aggiunge Strano: «l’autore dei capolavori della contemporanea Villa d’Este, un amico dei Farnese che immaginiamo attratto dalla possibilità di lavorare di nuovo a un giardino con acque e fontane, nel più prestigioso sito di Roma».

AFFASCINA SAPERE che intorno a queste bucoliche fonti, a partire dal 1693, si sarebbero riunirsi i membri dell’Accademia dell’Arcadia, i quali sotto il segno della siringa di Pan auspicavano il ritorno al buon gusto del classicismo, eterno sogno di una Roma ciclicamente sozza e ignorante. Una vita tranquilla a contatto con la natura. Una poesia magari ingenua, ma almeno razionale e salva dalle emozioni a buon mercato della post-verità. Le certezze di un giardino geometrico, allietate da acqua che scorre nel Ninfeo degli Specchi secondo regole e capricci dettati dall’ingegno umano.