Apparentemente ammiccante all’ineffabile, il titolo del libro messo insieme dalla psicoanalista inglese Nina Coltart, Pensare l’impensabile (a cura di Sara Boffito, Cortina, pp. 200, euro 24,00) ha in realtà una sua valenza pragmatica, d’altronde ovvia per una studiosa anglosassone, «la più indipendente degli indipendenti» tra i membri della British Psycho-Analytical Society, che per dieci anni diresse la London Clinic of Psycho-Analysis, e morì suicida nel 1997, dopo che una malattia autoimmune l’aveva resa invalida.
Nina Coltart amava definirsi «eccentrica»: rivendicava la scelta della sua solitudine, e la sua simpatia per il buddismo, l’unica religione del tutto a-teistica e la sola a non contemplare il peccato, per definire il quale non possiede un vocabolo, ciò che permette di stabilire non pochi punti di contattato con la sospensione del giudizio in analisi.

Pensare l’impensabile non è dunque un imperativo misticheggiante, bensì la domanda implicita raccolta da Nina Coltart nella sua osservazione delle patologie psicosomatiche, in cui si rende necessario attraversare quella «area segreta del divario mente-corpo» i cui sintomi rappresentano vissuti determinati a restare inconsci, e tuttavia percettibili attraverso forme di mascheramento: eruzioni cutanee, pruriti, paralisi contingenti, tutti quei disturbi la cui origine non è organica.

Più volte nel suo libro – che è una collezione di saggi e conferenze – Nina Coltart esibisce il suo debito con Bion, dal quale ha imparato a non cedere allo sconforto di fronte al fatto di non sapere quanto accade nella mente del paziente e a volte anche nella propria; da Bion ha anche appreso quanto sia provvidenziale astenersi «dalla memoria e dal desiderio» durante una seduta analitica, fino a sforzarsi di non pensare, così che evidenze non ricercate trovino la loro strada e si rendano manifeste e leggibile.

Diversi capitoli del lavoro di Nina Coltart hanno il fascino che deriva dal contagio di una passione, per esempio quando parla della sfida che le imposero i suoi «pazienti silenziosi», uno dei quali non parlò in seduta per quasi un anno, altri per mesi. Tra loro Nina Coltart sceglie, per raccontarlo, il caso di un uomo di circa cinquantacinque anni, vergine, con una personalità potente e carismatica, non sposato e non omosessuale, il cui silenzio prolungato la esasperò al punto da farla infuriare. Fu proprio la sua esplosione di rabbia, per nulla conforme al comportamento canonico di un analista, che indusse l’uomo silenzioso a sperimentare – in un contesto dove sapeva assente ogni possibilità di ritorsione – «il suo odio primitivo per una madre autenticamente potente».

Nessuno meglio di queste persone apparentemente indisponibili al linguaggio – i pazienti che Coltart dice di preferire, grazie al fatto che l’ambiguità intrinseca al silenzio non li rende mai noiosi – insegnano come nel lavoro degli analisti esista sempre «una dimensione al di là delle parole».

Particolarmente avvincente, anche perché costellato di passaggi all’azione, il resoconto del caso di un travestito, che arrivò da Nina Coltart mandato dal suo medico di base, al quale si era rivolto per desiderio della moglie. Dopo cinque anni il matrimonio non era stato consumato, l’uomo nascondeva il suo travestitismo e la donna solidarizzava, almeno in parte, con l’astinenza sessuale che le veniva imposta.
Già all’età di dodici anni, il futuro travestito aveva confessato alla madre, con terribile sforzo, di indossare la sua biancheria intima, ma quella non si era scomposta più di tanto. Si fantasticava alternatamente come una fata, una sirena, o il consolatore di un harem dove trovavano rifugio donne danneggiate. Nina Coltart racconta le svolte che segnarono i tre anni e mezzo di analisi con questo paziente comunicando la tensione di un thriller, tanto che il caso è, per noi che leggiamo, prima di tutto un pezzo di letteratura psicoanalitica.
Via via, gli episodi di travestitismo si fecero nell’uomo più rari, perse interesse per la pornografia che lo aveva occupato per molto tempo e, naturalmente, visse questi successi terapeutici come perdite dolorose, che ripagava con esplosioni di rabbia e di rancore verso la sua analista, nonostante fosse diventato capace di avere rapporti sessuali con la moglie, e di interpretare i fattori che lo avevano tenuto inchiodato alla sua perversione.

Riassumere le avventure alle quali si sottopose quest’uomo significherebbe anticipare la suspence di un racconto, che vale la pena seguire via via. Basterà dire che le capacità interpretative di Nina Coltart vennero messe a dura prova e l’esito non fu dei più felici. A noi che ci limitaamo a leggere e dunque possiamo concederci il lusso di ignorare la verità storica, resta la gratificazione indotta dalla lettura di una potente verità narrativa.