Nel corso della seconda guerra mondiale, era l’aprile del 1944, un addetto alla missione commerciale sovietica negli Stati Uniti, Viktor Kravchenko, abbandonò la legazione del suo paese per chiedere asilo politico al governo statunitense, adducendo motivazioni squisitamente politiche, ma non senza avere risvolti anche personali. Di tutto ciò Kravchenko scrisse in un volume intitolato Ho scelto la libertà, che uscì a New York nel 1946, vero e proprio atto di accusa contro il regime staliniano con testimonianze e dati sul sistema repressivo e poliziesco, su cui si fondava il potere sovietico.

Tradotto in breve in moltissimi paesi, apparve in Italia da Longanesi nel 1948: a creare un caso intorno al libro contribuirono anche i molteplici attacchi e le accuse mosse al suo autore negli ambienti europei di orientamento socialista e comunista in anni in cui l’Unione Sovietica, vittoriosa sulla Germania nazista, e il socialismo costituivano un riferimento ineludibile e una concreta prospettiva politica. Particolarmente dura fu la reazione in Francia, dove il settimanale politico-letterario di sinistra Les Lettres Françaises sviluppò una accanita campagna denigratoria nei confronti di Kravchenko e del suo libro con la partecipazione e il supporto di influenti esponenti della cultura democratica francese. L’esule russo fu così spinto a intentare una causa per diffamazione contro la rivista francese, e il processo che ne seguì, tra il gennaio e il marzo del 1949, si trasformò in un vero caso politico internazionale spostando l’interesse e il dibattito sulla natura dell’Urss, del regime staliniano e sulla questione delle libertà personali nella società socialista.

Il processo, cui presero parte come testimoni o spettatori importanti intellettuali francesi del tempo – da Sartre a Garaudy, da Aragon e Mauriac, a Joliot-Curie – fu seguito in tutte le sue sedute dalla scrittrice esule russa Nina Berberova, affermata autrice di testi narrativi e memorialistici, che andò pubblicando i suoi resoconti sul giornale parigino dell’emigrazione russa «Russkaja mysl» (Il pensiero russo), poi confluiti in un volume di carattere storico-documentario, ma anche letterario, di indubbio rilievo nel panorama culturale della diaspora russa del XX secolo: Il caso Kravchenko è riproposto ora in una nuova edizione italiana da Guanda (traduzione di Francesco Bruno, introduzione di Marco Belpoliti, pp. 304, euro 18.50).

Il libro di Kravchenko ebbe un impatto molto forte sull’opinione pubblica occidentale in anni nei quali, dopo un breve periodo di idillio, il rapporto con l’Unione Sovietica si stava bruscamente deteriorando con l’inizio di quel lungo periodo di contrapposizione tra i due blocchi che viene tradizionalmente riferito al concetto di «guerra fredda». Le sconvolgenti rivelazioni del libro di Kravchenko sulle violenze che avevano caratterizzato i processi di industrializzazione e collettivizzazione del paese avviati dal gruppo dirigente staliniano, le pagine dedicate alle repressioni degli anni del terrore, le rivelazioni sulle privazioni e violenze perpetrate anche nella vita quotidiana del cittadino sovietico, colpirono il lettore occidentale, sebbene il caso Kravchenko non fosse che l’ultimo di una lunga serie di atti di accusa contro il sistema sovietico, il più circostanziato dei quali era venuto dal libro di un altro nevozvrašenec, V.G. Krivitskij, importante esponente dei servizi sovietici.

Con l’avvio dei contatti tra Stalin e Hitler, in vista di quello che sarebbe stato il patto Molotov-Ribbentrop, Krivitskij decise di rompere con il gruppo dirigente del suo paese e rimanere all’estero, dove si trovava al tempo in missione: ottenne asilo politico prima in Francia, poi negli Stati Uniti, dove morì suicida nel 1941. A Krivitskij dobbiamo il volume Sono stato agente di Stalin (pubblicato in Italia nel 1940), nel quale mise a nudo i meccanismi della macchina repressiva del potere bolscevico.

I paesi occidentali avevano dunque presto dimenticato l’ampio materiale già noto sul regime staliniano, se di lì a poco tornarono a dibattere in merito alla veridicità di quanto raccontato da Kravchenko nel suo libro. La testimonianza di Nina Berberova è ancora oggi un documento ineludibile per comprendere le opinioni e le tendenze del mondo intellettuale francese e, più in generale, di quei paesi dove la presenza di importanti partiti comunisti poteva influenzare in modo rilevante l’opinione pubblica. Nel Caso Kravchenko vengono riportati e riassunti il dibattimento in aula nei venticinque giorni del processo di assise e i sei giorni del processo di appello, mostrando i passaggi più significativi del dibattito, gli interventi degli avvocati delle parti, le voci dei tanti testimoni a favore e contro Kravchenko, rappresentanti dell’emigrazione dall’Unione Sovietica o parenti, amici e colleghi inviati direttamente dallo Stato Sovietico a testimoniare contro di lui. Tra i passi più commoventi, la deposizione di Margarete Buber-Neumann, aderente al partito comunista tedesco che era riparata in Unione Sovietica con il marito Heinz Neumann per poi essere imprigionata in un Gulag quando Neumann cadde in disgrazia all’epoca delle purghe. Margaret venne consegnata dai sovietici ai nazisti dopo la stipula del patto Molotov-Ribbentrop.

Pur avendo i tratti del testo documentario, il libro di Berberova sviluppa un ritmo narrativo, una caratterizzazione espressiva e verbale, un complesso di ritratti e personaggi che si realizzano in una prospettiva propriamente estetico-letteraria, rendendone la lettura avvincente. Lo stile originale e coinvolgente rimanda ai presupposti narrativi di quella che è l’autrice di veri e propri piccoli capolavori della prosa russa, tra i quali L’accompagnatrice o Le feste di Billancourt. Allo stesso tempo la precisione documentaria ci ricorda le opere della Berberova biografa (in primis di Pëtr Tchaikovsky, ma anche di Aleksandr Borodin). Come il suo celebre libro di memorie, Il corsivo è mio, anche Il caso Kravchenko costituisce una magistrale testimonianza dell’«altra letteratura russa», che per molti decenni coesistette all’estero con le due prodotte in patria: quella ufficiale sovietica, e quella non ufficiale, legata al cosiddetto samizdat.