Se oggi, in un contesto di lacerante divisione e progressivo smarrimento degli ideali europei dovessimo indicare un artista che questi ideali ha incarnato pienamente, Nikolaus Harnoncourt sarebbe una scelte esemplare. Fra i grandi direttori della seconda metà del XX secolo che ha felicemente varcato la soglia del millennio, Harnoncourt, scomparso sabato a Vienna all’età di ottantasei anni dopo il ritiro annunciato in dicembre per motivi di salute, è quello che forse vantava il profilo più originale. Nato a Berlino da una famiglia di antica aristocrazia erede di una storia europea illustre quanto drammatica, Nikolaus de la Fontaine und d’Harnoncourt-Unverzagt era cresciuto a Graz, e il primo gesto di mite ma decisa ribellione era stata la scelta degli studi di violoncello ( e viola da gamba) al posto della giurisprudenza.

Entrato nei Wiener Symphoniker, nei cui ranghi suonò dal 1952 al 1967 insieme a direttori come Szell e Karajan, aveva sviluppato ben presto un interesse per il repertorio antico e barocco, spinto anche dall’insoddisfazione per le esecuzioni cui partecipava. Dall’analisi delle partiture e degli strumenti antichi parte anche l’esperienza pratica del Concentus Musicus Wien, fondato insieme a sua moglie Alice e al coetaneo Gustav Leonhardt. Una nuova, splendida ribellione: il primo e principale lascito sono state le interpretazioni di Bach e Monteverdi, con le quali Harnoncourt e i suoi musicisti hanno letteralmente aperto la strada alla rivoluzione delle esecuzioni con prassi esecutiva storicamente informata.

Un modo vivo, nuovo, scientificamente più plausibile e infine musicalmente più soddisfacente di interpretare l’immenso lascito di duecento anni di civiltà musicale, la cui riscoperta va considerato fra le pagine più felici della cultura d’Europa, da Purcell a Handel a Haydn. Harnoncourt ha avuto la fortuna di attraversare, con la sua ammirevole parabola artistica, l’epoca d’oro delle incisioni discografiche, permettendo a gigantesca messe di incisioni audio e video di testimoniare l’evoluzione costante di oltre cinquant’anni di attività: dal folgorante nitore delle prime rivoluzionarie interpretazioni, al fascino sonoro delle più recenti, con un’umanità sprigionata da una pratica musicale costantemente calata nell’oggi, mai polverosa ma sempre sorprendente nella sua fedeltà alle lettera del compositore.

Ecco dunque accanto al monumentale impegno del corpus delle cantate di Bach ( immensa fatica discografica compiuta fra il 1971 e il 1990) e la memorabile trilogia monteverdiana realizzata a Zurigo con Jean Pierre Ponnelle, filmata e divenuta un ‘classico’, gli approdi al Mozart-Da Ponte e alle tante musiche del romanticismo. Le letture vivide e emozionanti quanto asciutte delle sinfonie di Beethoven e della musica di Weber, Schubert, Mendelssohn e Schumann tracciano un percorso che altri direttori hanno seguito ma forse nessuno finora ha pienamente uguagliato.

Ancora una ribellione, stavolta contro il cliché dei territori musicali assegnati ai soli specialisti: sarebbe infatti un errore di prospettiva considerare dunque come semplici curiosità fuori repertorio gli approdi più maturi, nelle collaborazioni con le grandi orchestre europee ( negli Usa Harnoncourt non è mai stato troppo popolare), da Vienna a Amsterdam, a Brahms, Bruckner, Verdi – con una interessantissima Aida – e persino Wagner e Gershwin. Impossibile però dimenticare la direzione in bilico fra humour, brio e malinconia di due brillanti concerti di Capodanno a Vienna, nel 2001 e nel 2003, fra le ultime brillanti medaglie al valore della cultura europea che questo musicista dall’animo gentile e dalla curiosità inesausta ha saputo conquistare.