Nella notte tra domenica e lunedì tre tentativi di attacchi suicidi si sono susseguiti a Maiduguri, nel nord est della Nigeria. Tutti condotti da minori, secondo i servizi di sicurezza, forse persino al di sotto dei 13 anni di età, come riferiscono varie fonti locali.

Il primo attacco poco prima della mezzanotte nel campo profughi (o meglio «sfollati interni») di Darole 2: un «attentatore» tenta di infiltrarsi nel campo ma viene ucciso prima che riesca a far detonare l’ordigno esplosivo che porta con sé. Il secondo tentativo, in parte riuscito, attorno alla mezzanotte, quando un ragazzo e una ragazza tentano di scavalcare la recinzione del campo di sfollati Darole 1. Lei muore mentre cerca di superare la barriera, lui riesce a percorrere qualche metro all’interno del campo prima di azionare l’ordigno. Nell’esplosione muoiono quattro persone persone. 19 i feriti, la maggior parte bambini.

Lunedì mattina un altro attentato, anche in questo caso è una giovanissima ragazza a farsi esplodere all’ingresso dell’Università di Maiduguri (già bersaglio di tentati attacchi verificatisi negli ultimi mesi). Nello scoppio muore l’attentatrice e diverse persone risultano ferite.

Nella giornata di martedì l’attenzione si era già spostata sulle prime notizie che arrivano dall’assedio del villaggio di Zai, nello stato di Yobe, da parte dei miliziani di Boko Haram. Nelle settimane precedenti la zona era stata già teatro di scontri armati. Notizie in controtendenza rispetto ai successi annunciati negli ultimi mesi dall’esercito nigeriano nell’ambito dell’offensiva contro l’organizzazione jihadista negli stati del nord est e nelle zone di confine con i paesi vicini. Un conflitto che anche in seguito ai sanguinosi sconfinamenti dei miliziani coinvolge a pieno titolo le forze armate di Camerun, Ciad e Niger, con il sostegno di Francia e Stati uniti in nome della «guerra al terrorismo internazionale».

Ma in un contesto come quello della Nigeria di oggi risulta molto complicato, anche per le persone che in questo paese sono nate e cresciute, avere una lettura chiara delle dinamiche legate agli scontri o al ripetersi di atti di inaudita violenza.

Le pratiche che negli ultimi tempi si stanno diffondendo vedono ragazzini e ragazzine sempre più giovani coinvolti nella realizzazione di attacchi suicidi spesso organizzati in contesti urbani e poveri. Gran parte delle persone coinvolte, molto spesso originarie delle aree rurali o da aree al momento inaccessibili per motivi di sicurezza, migrano negli aggregati urbani senza disporre di risorse per il proprio sostentamento. Si trovano a vivere di lavori informali e nell’impossibilità di accedere a qualsiasi tipo di struttura educativa o di supporto, andando ad ampliare il già grande bacino di persone che, strappate al loro contesto originario e quindi dalle relazioni di supporto comunitario, si trovano a vivere in gravi condizioni di disagio e di disgregazione sociale.

Un’altra pratica sempre più diffusa riguarda gli obiettivi degli attentati: Università, campi profughi e luoghi di grande concentrazione come i mercati si sono aggiunti da tempo ai target militari o governativi. Sulla scuola l’interpretazione comune offre facili spiegazioni: è accusata di veicolare quella cultura «occidentale» contro la quale si batte Boko Haram. Molto più difficile risulta spiegare la scelta di colpire la popolazione in alcuni casi inerme, in altri organizzata – come nelle Cjtf (Civilian joint task forces). In questo caso si parla di conflitti interni a base individuale o collettiva (come per esempio l’aver abbandonato le file degli insorgenti).

In ogni caso sulla strategia di Boko Haram tutte le interpretazioni che circolano sembrano lacunose, nel momento in cui cercano di ricondurre per semplificazione il fenomeno a una matrice singola, di tipo «terroristico». Urge un’analisi più ampia, che non si limiti ai singoli fenomeni.